Pensiero del giorno

•‎In un momento della vita, al momento giusto, bisogna poter credere all'impossibile Christa T. - di Christa Wolf

giovedì 15 dicembre 2011

Al Valle Danilo Rea e il jazz sui tetti di Roma. Ma il teatro?

Le terrazze romane si sa incantano anche il cielo, e sotto il cielo di Roma, sui tetti del quartiere Monti, ad inizio estate in una calda giornata di metà giugno, succede che venga portato su a spalla, per le scale di un palazzo antico di via Panisperna, uno Steinway & Sons a coda. Che poi, appena si avvicina la sera quando il cielo si fa rosa e le terrazze romane si riempiono di fiaccole, comincino a diffondersi le note di una jam session composta da Danilo Rea al pianoforte, Paolo Damiani al violoncello e Rashmi Batth alle percussioni, concerto organizzato da Emergency per una raccolta fondi interamente devoluta in beneficienza.

Nasce così il film-concerto Sotto il cielo di Roma- Note dal tetto live concert con la regia di Lorenzo Conte, che fra qualche giorno verrà venduto in allegato a L’Espresso. La scorsa sera al Valle, la serata si è aperta con un breve tributo al premio Ubu, vinto per la prima volta nella storia di uno dei premi più prestigiosi per il teatro, da un teatro occupato (ma il Valle aveva già incassato il premio Salvatore Randone) ed è poi proseguita con la proiezione del live sui tetti del quartiere Monti. Suggestivo e avvolgente lo spettacolo offerto gratuitamente da uno dei performer di jazz più importanti sulla scena nazionale, che alla fine della proiezione ha continuato a suonare dal vivo.
Il Valle continua a coinvolgere la cittadinanza in una permanente assemblea culturale, è una realtà di eccezionale fermento in una città come Roma, ma è un’occupazione che ha preso le forme di una gestione permanente. La domanda è: fino a quando gli occupanti, i teatranti, gli operatori dello spettacolo, le maestranze di un nobile storico e prestigioso teatro come il Valle, potranno andare avanti con il piattino in mano?
Qualche tempo fa, in un incontro organizzato con Dario Fo e Franca Rame, diventato un lungo dibattito con la platea, i due attori sottolinearono come anche nel corso delle loro esperienze d’occupazione durante gli anni 70, gli spazi occupati diventavano luogo simbolo di comunità, di condivisione, spazio culturale politico. Ma mai si prescindeva dal rispetto per il lavoro che stava dietro lo spettacolo gratuitamente offerto, e questo voleva dire farsi comunque sempre pagare il biglietto. Simbolicamente, senza giungere a stabilire un costo eccessivo, ma senza piattino in mano. Evitando così di trasformare sempre tutto, anche il lavoro generosamente offerto da professionisti di livello, in assemblee di transito.

Mi chiedo, perché al Valle non è stata ancora mai messa in scena una piece teatrale vera e propria? Quale spazio migliore di un teatro occupato da offrire alla creatività di giovani registi e giovani attori. Fu questa, un tempo, la funzione dei teatri stabili, che poi si perse nel tempo anche e soprattutto per mancanza di fondi alla cultura, ma il Valle è un esempio di rivoluzione culturale come non se ne vedevano da secoli in Italia. Questa occupazione ha sparso tra la gente la voglia di frequentare il teatro, la fruibilità di un certo tipo di cultura, ma ora che il messaggio è stato recepito, occorre riportare il teatro in teatro. Gli occupanti hanno dimostrato di sapere gestire il teatro mantenendolo dignitosamente, ma su quelle tavole manca il rumore dei passi battuti dai teatranti. Comincia a farsi strada la necessità di uno scatto di reni ulteriore, una rassegna, una programmazione teatrale vera, che capovolga il concetto precario di occupazione inglobandolo, facendolo diventare finalmente una realtà virtuosa stabile.

Manuela Caserta

giovedì 1 dicembre 2011

Lucio Magri: Se solo si potesse morire come ci pare...

Non si può scrivere di Lucio Magri, solo cominciando della fine, da quel gesto squarciante e autoreferenziale che è l’eutanasia volontaria. Non è stata fuga, ma semplicemente abbandono, e ciascuno sarà pur libero di scegliere come uscire di scena senza per forza farsi paladino di un diritto sociale per tutti, senza per forza coinvolgere l’ordine morale, fare appello ai laici, farsi accendere un riflettore addosso mentre rifuggi da qualsiasi luce. Senza per forza esser giudicato nelle proprie possibilità, che siano anche solo quelle di potersi permettere un biglietto di sola andata in un Paese neutro, senza Vaticano, moralisti, finti rivoluzionari e liberisti. Neutro come la nebbia, che avvolge tutto anche una vita intera.

Sì, è un diritto poter scegliere come morire, ma non è un diritto sindacare la morte ogni volta, come se la vita degli altri ci appartenesse per status quo. Non ci apparteneva giudicare della Englaro, non ci apparteneva giudicare di Welby e non ci apparteneva giudicare di Monicelli. Che ne sappiamo noi del dolore che squarcia una persona, della sua solitudine, e la nostra attenzione sull’ultimo atto compiuto, su quella improvvisa assenza, certo non è struggimento no. Non illudetevi. E’ spesso solamente vorace voyeurismo, sensazionalismo evocato da qualche titolo di giornale. E a volte, solo a volte, è anche riflessione su quell’esistenza. Magri è scomparso da due giorni, e sappiamo di lui ciò che fu, quali atti di rottura verso un sistema che non condivideva fece quando si conquistò la definizione di eretico comunista. Ed “eretico” è stato anche il suo ultimo gesto, eretico visto con gli occhi di una società che non è riuscito a cambiare, ma per la quale la sua pervicace volontà intellettuale ha lavorato a mani nude. Discutiamo se vi pare, di come si debba vivere e lottare verso lo Stato, la nostra ideologia, i poteri forti e anche la malattia, ma quando questa cresce lentamente su un’assenza..c’è poco per cui lottare, non esistono nemici o rivali, c’è il vuoto soltanto. Lucio Magri aveva perso il suo alterego e la sua ragione di vita, che non era la libertà di cui si è vestito fino alla fine, non era una battaglia sociale, era semplicemente la sua compagna di vita, che senza invocare alcun romanticismo di sorta né il suo contrario per bandire sia ogni forma di stucchevole commozione, che di cinica derisione, era ciò che evidentemente gli aveva dato un senso.

Fondatore del Manifesto, scrittore, giornalista spina nel fianco di quel PCI degli anni 60/70, che di comunista aveva il nome e poi le velleità. Dentro il quale brulicavano intellettuali, militanti, sanguisughe, giovani citazionisti, futuri strateghi dei fallimenti della sinistra, e dirigenti che conoscevano bene la liturgia dell’obbedienza e della reminiscenza, oltre che la cosiddetta terza via. Spesso ancora oggi si vuol far passare per ragion di Stato ciò che è solo sapone caustico della propria coscienza. Così lo fu allora, quando la Cecoslovacchia venne invasa, violentando la natura del vero sogno socialista. E lì chi ci credeva divenne eretico, per colpa di un diktat, “eretico”, una parola che a pensarci bene nella storia ha sempre avuto il sapore vero della libertà. È quasi d’obbligo per molti giornalisti, colleghi e amici di Magri scrivere di lui, di questo estremo gesto. Come lo fu per Monicelli, che tutti ricordano fino alla fine presente ad ogni manifestazione contro le assurde politiche di tagli alla cultura. È d’obbligo dare onore alla memoria di uno che ci credeva, e oggi come oggi, quanti sono quelli che ci credono ancora, e in cosa soprattutto…?

Sì ma non è un obbligo tirare fuori nemmeno 24 ore dopo, tutti i temi dello scibile sociale e politico di questa società: il cattolicesimo opprimente e di facciata (nel quale però annaspiamo), il testamento biologico, il diritto dei poveri a morire come vogliono, i suicidi di massa nei penitenziari…
Magri soffriva di depressione, quel mal di vivere che un film del regista Alessandro di Robilant, tempo fa, descrisse molto bene, il film s’intitolava Per Sempre, protagonisti Giancarlo Giannini e Francesca Neri. Una storia bellissima, dove il protagonista, bello, ricco, stimato e di successo, si ammalava di mal d’amore, di un male deriso, spesso incompreso ma vero, esistente non solo in letteratura. Quello che viene definito “graffio dell’anima”, è uno strappo interiore, incurabile, che ti segna intimamente e ti consuma lentamente…

Si può spiegare una vita in mille modi, leggendoci le mille sfaccettature che l’hanno riempita, descrivendone le avventure, le parole, il coraggio, e la storia perché di storia si tratta. E Magri fu un assoluto protagonista di un pezzo importante della storia politica italiana, ma questo estremo “eretico” ultimo atto, di struggente poesia, come chi esce di scena di schiena e semplicemente se ne va, lasciamo che sia solo suo, intimo, personale, così come l’ha voluto, senza la mondanità evocata da tutti quelli che cercano uno scorcio di personale rivoluzione solo attingendo a quella degli altri.

Manuela Caserta

mercoledì 16 novembre 2011

Governo Monti: Il velinismo è acqua passata...

Se volevamo la rottura col passato, c’è stata. Almeno nei fatti, i nomi espressi dal neo-governo Monti risultano essere di specchiata levatura istituzionale, seppur con qualche feeling di troppo con il mondo finanziario. Solo tre donne su 17 ministri, cinque senza portafoglio, fra i quali spicca il braccio destro del neo presidente del Consiglio Mario Monti, Enzo Moavero Milanesi, designato ministro agli affari Europei, che ricoprì il ruolo di capo di gabinetto di Monti a Bruxelles, ma in passato fu già consigliere di Amato e Ciampi a palazzo Chigi nel 1992/1993. Specializzato in antitrust, all’età di 57 anni è giudice presso la Corte Europea di giustizia di Lussemburgo. Solo tre donne dicevamo, ma designate per la prima volta, nei ministeri che contano. Alla Giustizia, la neo ministra Paola Severino, ci auguriamo ci faccia dimenticare presto i colleghi di centrodestra che l’hanno preceduta, su tutti Castelli e Alfano. Paola Severino, avvocata penalista, vicerettore della LUISS, consulente di banche e associazioni, già consigliera nello staff dell’ex ministro di grazia e giustizia Giovanni Maria Flick. Ha rivestito anche la carica di vicepresidente del consiglio della magistratura militare nel 2001, impegnata sul fronte femminile le è stato assegnato il premio Bellisario. Una lunga carriera da penalista, che ha difeso nomi eccellenti delle istituzioni e dell’imprenditoria italiana, come Prodi, Geronzi e Francesco Caltagirone, e ha ricoperto anche la carica di difensore dell’unione delle comunità ebraiche nel processo contro l’ex ufficiale delle SS Erich Priebke. La si vuole politicamente un tantino vicina al centrodestra, nel 1993 infatti fu Berlusconi a nominarla commissario della Consob. Anna Maria Cancellieri, prefetto di lungo corso che all’età di 77 anni (a quanto pare pochi per andare in pensione) assurge all’apice della carriera, ricoprendo il ruolo più alto, ministro dell’interno. Una poltrona da sempre d’impronta maschile, che proprio un governo tecnico d’emergenza, ha stavolta assegnato ad una donna, di lunga e prestigiosa esperienza. Era stata da poco nominata commissario prefettizio del Comune di Parma, ma a giudicare dal suo esordio professionale probabilmente era destinata a chiudere il cerchio della sua lunga carriera lì dove l’aveva intrapresa. A 19 anni infatti cominciò a lavorare presso la presidenza del Consiglio, mentre dalla laurea in scienze politiche in poi, ha proseguito una carriera abbastanza lineare da funzionaria del ministero dell’interno, svolgendo il ruolo di prefetto in numerose città italiane. Elsa Fornero, nominata ministro per il lavoro e alle politiche sociali, torinese elegante e sobria in linea con il mood del nuovo governo. Economista, con una cattedra presso l’università di Torino, entra a far parte del vertice di Banca Intesa nel 2010, entrando così di fatto nelle segrete stanze del potere maschile. Fondatrice del Cerp (Centre for Research on Pensions and Welfare Policies, Collegio Carlo Alberto) e di un istituto di studi superiore riconosciuto dal British Council. Consulente per la Banca Mondiale, esperta di pensioni, promotrice di una politica per lo sviluppo legata all’occupazione giovanile. Pare sia stato scritto da lei un capitolo che fa parte delle linee programmatiche pluriennali della Compagnia di San Paolo dal titolo “genere e generazioni”. Nelle intenzioni ispira fiducia, nella pratica ci auguriamo di non smentirci. A giudicare dai curricula delle neoministre, il velinismo berlusconiano sembra proprio esser stato rottamato e riposto nel passato remoto. Bocciata la politica con le sue spartizioni partitocratiche, l’algido Monti ha confezionato un governo tecnico di precisione chirurgica, quasi una costola della stessa cellula che ha partorito Nikita. E se davvero si trattasse della terza Repubblica, ben venga, sempre che sconfitto il berlusconismo, non tocchi difenderci dal sottile connubio bancario-vaticanista che aleggia all’ombra del neogoverno.

Manuela Caserta

mercoledì 26 ottobre 2011

Palermo-Cefalù On Air A/R

“On-Air, che non significa “nta ll’aria”, potrebbe essere il titolo e il filo conduttore, di queste poche ma intense giornate in terra sicula. La battuta è copiata, e il copyright è della Blandeburgo (al secolo Stefania Blandeburgo), come la chiama la mia amica Giusi. La Blandenburgo è una stimata attrice di teatro, che conduce un divertente programma radiofonico, e in radio si sa, o sei On-Air o sei Off, un po’come nella vita.

Atterriamo a Palermo intorno all’ora di pranzo, nell’atterraggio sbircio il mare dal finestrino e quando esco fuori dall’aereoporto la luce chiara e calda dell’autunno siciliano mi apre il cuore. Nel tragitto che ci porta a Palermo, mentre andiamo incontro alla Conca d’Oro che abbraccia la città, e te la rivela appena ci entri dentro, ascolto distratta le chiacchere tra due amici siculi che si ritrovano dopo tanto tempo, intanto, fotografo con gli occhi, ogni angolo di cielo di questo scorcio d’isola. Fa caldo è una magnifica giornata d’autunno, e qui il sole t’illumina dentro, ti fa stare bene, e il tuo umore si allarga improvvisamente in un sorriso. Non ci tornavo da 5 anni, la prima volta la vidi in una calda notte d’estate, e già allora Palermo mi aveva sedotta, la ritrovo di giorno, in una stagione che le sta addosso come lo zucchero sui panuzzi.

Questa volta però, conto di vederla attraverso uno sguardo più profondo, quello di chi le appartiene, una palermitana d’eccezione,che di Palermo ha scritto tanto da lasciarci tra le dita, ancora il profumo di pagine unte di sole, gustose ricette siciliane, vortici familiari, passioni laceranti, addii e ritorni Almodovariani. Quando mi ha chiesto di accompagnarla a Palermo non ci ho pensato due volte, perché mi andava di tornarci da tempo, e dopo aver letto i suoi libri ancora di più. Sono sempre stata convinta che i viaggi come i libri, vengano a trovarti come i desideri, arrivano quando è il momento. E dunque eccoci qui, io che sono da anni un’eoliana d’adozione, ora mi lascio adottare anche da questa città, che ti si rivela come un’aristocratica e vecchia signora d’altri tempi. Lascio Giusi alle sue interviste, e nel pomeriggio assolato mi lascio condurre dalla mia pazza amica Monica, in giro in motorino per la città. Lo sguardo a perdere tra Piazza della Vergogna (con le sue statue tutte nude), il teatro Massimo maestoso e assolato, i Quattro Canti, una passeggiata alla Cala sul mare, tra le barche del porto turistico e una visita alla cattedrale dove è sepolto Federico II, colui che portò il sud a essere definito il Regno del Sole.

Il pranzo che ve lo dico a fare..involtini di pasta alle melanzane, sotto il sole ovviamente. Ho ancora l’eco nelle orecchie delle chiacchere di Monica e di quella parlata musicale, che usa il passato remoto e i verbi più di quanto lo si faccia normalmente, e penso: ma i siciliani non possono avere problemi con il congiuntivo tutt’al più con il futuro! Il tramonto mi porta a Cefalù, dove decidiamo di trasferirci per respirare l’odore del mare all’ora di cena. Superiamo Termini Imerese e le sue fabbriche con i coni di fumo lungo la costa, non puoi fare a meno di pensare a tutte le rivendicazioni operaie, alle loro speranze e paure. Attraversiamo un paesaggio a macchia mediterranea pieno di fichi d’india ricchi di frutti, ingoiati da un fascio di luce gialla avvolgente e ipnotica.

Ed eccoci nei luoghi di Manna e miele ferro e fuoco, approdiamo a Villa Romilda ospiti del “barone” Francesco. Appena sveglia con il mio solito calo ipoglicemico mi fiondo a fare colazione, e mi incanto alla vista di Cefalù dall’alto, il mare è fermo, il cielo è limpido, mi viene voglia di andare a fare un tuffo in quel blu, anche se è mattino presto e il sole non brucia. L’incanto si ripete sulla piazza principale del paese, dove io e la Torregrossa ci sediamo a godere di sole e caffè litigando per chi va a giocare la schedina al tabaccaio di fronte, mentre l’altra paga il conto, (tra meridionali sfilare lo scontrino dal tavolo senza che l’altro se ne accorga è una sfida incomprensibile per lo più, a chi è nato da Roma in su).

Da calabrese però, io ho sempre un po’ invidiato la capacità dei siculi di ammaliare il turista anche solo parlando, la Sicilia è una finestra sempre aperta sul mediterraneo e la respiri in tutta la sua ricchezza. Lascio la Sicilia (con l’idea di ritornarci presto) e fuori quella mattina piove, ma mi fa sorridere ancora tutta la luce che ho respirato, e mi fa sorridere pure la dissertazione idiomatica tra loti e cachi. Come tutto il resto, frame di un giornata vissuta su un set, con l’odore delle melanzane fritte da Rosa in cucina, e quello del miele che mi passava sotto il naso…

lunedì 24 ottobre 2011

"E a me, il sushi, non basta più." Lettera aperta ai creativi e ai lavoratori della mente.

Cari creativi,

vi chiedo di leggere questo post. Ci metterete 5’. Parla di voi. Dopo, sarete un po’ incazzati. Forse, più motivati. Magari saprete cosa fare. Altrimenti, postate una canzone.

Ora passo al tu. Se appartieni al 94% di chi “non” possiede o dirige un’azienda di successo, con i riconoscimenti che ne derivano, contratti o dividendi, prendi un foglio di carta e scrivi su quali forme di tutela puoi contare. Fatto?

Che prospettive ritieni di potere avere, superati i 50 anni, se non dovessi divenire titolare, dirigente, star acclamata? E se ti trovassi nella condizione di doverti ri-immettere sul mercato?

Oggi, su quali garanzie puoi contare sotto il profilo sanitario, pensionistico, in caso di malattia, disoccupazione, maternità Se invece sei un libero professionista o un free lance, che tutele hai su pagamenti e tempi? Quali spese scarichi? E gli utili corrispondono agli studi di settore?

Se hai un contratto a progetto, a chi ti puoi rivolgere per mutui o finanziamenti?

Se stai iniziando ora, quali aiuti hai ricevuto per lo start up?

E, infine, se hai un’idea innovativa, chi è pronto ad ascoltarti? Che strumenti hai per proteggerla?

Ma soprattutto, chi riconosce il tuo valore, e ti considera una forza importante e strategica? Chi ci rappresenta? Quale corrispondenza esiste tra le nostre idee, la nostra visione del mondo e delle cose, l’amore per il bello in tutte le sue forme, e il sistema Paese?

Se, al contrario, appartieni a quel 6% che ottiene onori e premi, chiediti quanto sei veramente tutelato, e se non hai anche tu, stampigliata da qualche parte, la data di scadenza. Cosa succede se un fondo ti acquisisce e decide che non sei performante? Se litighi con soci, se soffri di ansia da prestazione, se il tuo mercato viene travolto dalla crisi, se improvvisamente ti pesa fare l’ennesima notte? Ma soprattutto, chiediti cosa puoi fare tu per il 94% di talenti che, meno di te, hanno ottenuto visibilità, guadagni, opportunità.

In Italia non esistono cifre che dicano quanti siano i professionisti che svolgono attività finalizzate alla creatività. I “creativi”, semplicemente, non esistono.

Eppure siamo quelli che costruiamo, ogni giorno, l’immagine della filiera industriale e commerciale, in alcuni casi, sogni e tendenze. Quelli che progettano le piattaforme dove ci si confronta. Che creano stili, storie e visioni da condividere. Disegnano il presente.

Io ritengo che in Italia siano più di 2 milioni le persone che vivono delle proprie capacità creative. Il doppio se si considerano ambienti di riferimento e indotti.

Non siamo identificati, rappresentati, tutelati, rispettati, valorizzati. Facciamo un lavoro logorante, che spesso riduce la capacità competitiva con l’avanzare degli anni. Prigionieri di stereotipi che ci vedono modaioli e svagati, con il bigliardino all’ingresso e il lupetto nero, sempre alle prese con cose divertenti. In realtà protagonisti di quella fuga di cervelli che porta i più intraprendenti di noi ad andare all’estero per poter vivere e realizzare le proprie idee.

Facciamo un lavoro anonimo. Senza diritto d’autore, con ritmi superiori a qualsiasi regime contrattuale, disposti a lavorare di notte e nei festivi, sulla scia di quell’entusiasmo e disponibilità che è insita nel nostro lavoro, al quale non potremmo rinunciare, ma che diviene regola in luogo di eccezione. Ma non siamo missionari e non stiamo salvando la vita a dei bambini. Siamo solo uno strumento del sistema industriale. Lavoratori dell’immateriale, braccianti della mente.

Eppure, insieme alla ricerca tecnologica, rappresentiamo l’identità storica della nazione, il made in Italy, quello che ancora ci garantisce un briciolo di credibilità nel mondo.

Ci confrontiamo e diamo voce alle culture giovanili e riformiste, invisibili e marginali per i media e il potere quanto lo siamo noi. Sperimentiamo tecnologie e linguaggi.

Pensiamo internazionale.

Siamo quelli che hanno contribuito alla creazione della cultura web e social, della quale conosciamo, più di tutti, dinamiche, linguaggi e modalità. Ma non siamo mai coinvolti nelle scelte e nelle soluzioni. Mai consultati, mai coinvolti nei processi decisionali sui grandi temi di questa società. Che rinuncia, di fatto, a valorizzare uno straordinario capitale di energia e innovazione.

Mi spiace dirlo, ma le associazioni di categoria in questo momento non hanno più senso. Così come il parlare di pubblicitari, grafici, architetti, e di mille altre piccole nicchie. Sono finite le corporazioni. Potranno essere utili solo dopo, per specifiche esigenze di settore, per l’aggiornamento professionale e il confronto tecnico. E poi, basta.

Non ci sono creativi fighi e creativi di serie B. O lo sei, o non lo sei.

Il cambiamento che vi propongo è di mentalità e di visione.

Siamo e siete un’unica entità, qualunque cosa facciate: creativi per pubblicità e eventi, copy, art, graphic & industrial designer, visualizer, web. Ma anche artisti, autori, stilisti, scenografi, light designer, montatori, sceneggiatori, story editor, coreografi, registi, fotografi, progettisti, blogger, compositori, video maker, illustratori, costumisti, direttori artistici, curatori, artigiani di ricerca, traduttori, ghost writer… Nelle grandi città, come in provincia, dove maggiori sono le difficoltà.

Occorre spostare il livello di percezione/visibilità. Piantarla di fare gli individualisti. Divenire massa critica, movimento di opinione, influencer. Smettere di pensare all’orticello per acquisire quella che il buon Pasolini chiamava “coscienza di classe”.

Se il mondo non ci considera, usiamo le metodologie che il mondo comprende.

• Diventiamo lobby

• Impostiamo una rivendicazione sindacale (sì, avete letto bene)

• E quindi, diveniamo Gruppo di Pressione.

Anche in un momento di crisi, che potrebbe far sembrare irrealizzabili e utopiche queste istanze. Perché è quando si è in curva che occorre spingere sull’acceleratore.

Primo passo, renderci visibili, sollevando il problema. Al pari di quanto hanno fatto pochi anni fa i nostri colleghi sceneggiatori americani.

Blocchiamo il giocattolo.

Occupiamo la rete. Facciamoci vedere. Anche nelle strade. Senza sentirci obbligati a dover, per forza, fare manifestazioni fighe e creative. Poi, diveniamo piattaforma.

Cosa chiedere? Di ascoltarci. Di avere, in questo paese, un ruolo consultivo e decisionale. Ma anche ciò che hanno ottenuto tante altre categorie che, nella storia, prima di noi, hanno affermato in maniera organica i propri diritti:

1 - Tutela dei più giovani, con contratti a progetto e stipendi che assomigliano al conto di un ristorante. Regolazione del sistema stage e incentivi per chi assume. Finanziamenti o prestito d’onore per attrezzature e alta formazione

2 - Garanzia di tempi e modalità di pagamento per professionisti esterni e free lance. Con possibilità di accedere in maniera diretta a un collegio arbitrale per la risoluzione di problematiche professionali

3 - Istituzione di un Fondo di Solidarietà, pagato contestualmente alla prestazione d’opera, o inserito direttamente nel contratto. Destinato ad aiutare chi si trova a vivere momenti di difficoltà, per maternità, problemi di salute, disoccupazione. Con tassi agevolati per mutui e fidi

4 - Diritto d’autore per nuove categorie o forme espressive, per ridurre una disparità di trattamento non più giustificabile. Anche alla luce della recente sentenza Bertotti contro Fiat.

5 - Adeguamento legislativo del concetto di "idea", oggi del tutto privo di rilevanza e tutela giuridica.

6 - Nel caso di partita IVA, iscrizione in categoria separata, con imposta calcolata al 75%, come avviene nell’ambito della cessione dei diritti. O inserimento delle categorie nella gestione Enpals, inserendo il concetto del "collocamento"

7- Facilities per l’aggiornamento professionale, per il consumo di beni culturali e soggiorni all’estero, elementi ala base del nostro lavoro

Diritti, si badi bene, che non devono essere appannaggio del soggetto singolo, ma anche di aziende e studi professionali che pongono la creatività come core business. Questo non vuol dire, quindi, lotta tra poveri, in un momento di grave congiuntura, ma condivisione di opportunità:

1 - Regolazione del sistema gare e riconoscimento della “creatività” all’interno del formulari di gara

2 - Diritto a poter scaricare le spese effettuate dalle aziende per ricerca, sperimentazione, nuove tecnologie. E incentivi per stage, apprendistato, assunzioni, contratti nell’area creativa

3 - Riduzione fiscali e incentivi in caso di start-up, con particolare attenzione nei confronti di under 30, factory, realtà collettive, in un contesto che valorizzi 3 assi portanti: creatività, ricerca tecnologica, arti

4 - Attivazione di ammortizzatori anche per quelle aziende che non raggiungono i minimali previsti per accedere a cassa integrazione o mobilità

Ho finito. E, detto tra noi, non avrei mai pensato di dover scrivere un giorno un testo simile a un vecchio volantino sindacale o a una predica mormonica. Ma così è. Con la netta sensazione che il social, pensato per unire teste e mondi, possa servire a qualcosa di più che postare una canzone.

In questo percorso illuminante il dialogo che gli sceneggiatori di un piccolo film “Generazione 1000 euro” ha messo in bocca a due amici, perennemente stagisti. “Questa è l’unica epoca in cui i figli stanno peggio dei padri….” è il commento di Matteo quando apprende che un suo coetaneo disoccupato lascia Milano per tornare dai genitori: “E qual è la nostra risposta? Mangiare Sushi.”

E a me, il sushi, non basta più.

Alfredo Accatino

martedì 18 ottobre 2011

Mara Sartore: «si può campare di cultura poi magari non basta fare un festival solo»

Giovanissima decide di lasciare l’estero per ritornare in Italia, e in direzione ostinata e contraria fonda insieme ad altri “artecolici” come lei, un festival di corti, Circuito Off, che si svolge contemporaneamente alla celebre Mostra del cinema di Venezia, nella città del Doge appunto. È passato oltre un decennio dalla prima edizione, segno di una ostinata resistenza culturale, ma anche forse, segno che se provi a piantare una buona idea, qualche volta può anche crescere. E forse è vero, questo “Non è un paese per vecchi”.

Creare un modello culturale come Circuito Off facendolo crescere, resistendo nel tempo, in Italia, di questi tempi, è una prova da sopravvissuti. Cosa consiglierebbe a dei giovani con i suoi stessi interessi?

R.: É una domanda difficile devo dire, perché non so se esista una ricetta non so se esista un consiglio valido efficace, certamente scegliere di restare in Italia e fare le cose è secondo me prendere una posizione. Diciamo che nel mio caso specifico, io sono addirittura tornata in Italia perché vivevo all’estero dove ho studiato e ho lavorato per un lungo periodo. Io credo che bisogna essere capaci di avere un pensiero positivo e di credere molto fermamente in quello che si fa pensando di superare tutti gli ostacoli. Sicuramente questo è un atteggiamento che non viene molto stimolato, nel senso che in Italia c’è una tendenza a compiangersi e sottolineare soprattutto i difetti del Paese. Un atteggiamento che sicuramente viene marcato dai media soprattutto quelli culturalmente schierati a sinistra, anche per insoddisfazione verso questo governo, ma che purtroppo non va a stimolare una fiducia e senza fiducia è difficile fare qualunque cosa. Quello che io penso è che le situazioni difficili dovrebbero essere di stimolo senza farsi prendere dallo sconforto ancora prima d’iniziare.



L’Italia è un fiorire di rassegne e festival, dalla letteratura al cinema al jazz, ma nonostante questo non si respira un gran fermento culturale in questo paese. Da cosa dipende?

R.: Io devo dire che ho molta fiducia nei giovani italiani, credo che il fatto che continuino a proliferare dei festival nonostante la crisi nonostante i tagli, sia una testimonianza ottima del fatto che la gente non guarda più la Tv ma si riunisce in associazioni, parla delle cose e ha voglia di esprimersi. Magari non sceglie il solito canale politico ma sceglie anche quello culturale per cambiare le cose. Quindi credo molto in una cultura underground sotterranea sommersa, molto attiva, e credo che in questo momento quello che c’è di stallo vero è il vertice, cioè chi sta al governo chi sta al potere è in stallo non ha capacità di legiferare in maniera creativa o costruttiva, non ha capacità di rinnovarsi o di svecchiarsi. Io credo che alla base in Italia ci sia una voglia di fare, un proliferare di cose molto molto interessanti. Certo c’è anche un forte incrementarsi di giovani che continuano ad emigrare ad andare via, a vivere in altri paesi, però c’è anche una parte di quelli che rimangono che comunque continuano a fare delle cose. Quindi credo che sia una questione di tempo.


Cosa l’ha spinta a tornare in Italia?

R.: Quello che mi ha spinto fortemente a tornare è proprio quello di dire: in Italia comunque mancano delle cose, bisogna farle. Credo che questo sommerso sia solo una questione di tempo ma emergerà, non credo che gli italiani siano un popolo di rivoluzionari però, penso che nella storia quando c’è stato il momento si sono sempre fatti sentire, quindi mi auguro che sia ancora così, che la nostra voce non si spenga e la nostra energia neppure insomma.


Al festival di Venezia per i registi italiani da tempo oramai, è difficile essere profeti in patria. Negli ultimi anni la colpa veniva data al cinema italiano, è ancora così?

R.: Ma sa le vittorie poi contano secondo me il giusto, cioè io non guardo mai chi vince i festival, guardo chi c’è in programma, e negli ultimi anni con Controcampo italiano i film italiani ci sono e sono parecchi. Le giurie poi hanno un giudizio insindacabile e sono molto soggettivi rispetto a chi le va a comporre. Non credo che Venezia sia più un festival suo malgrado legato alle dinamiche della distribuzione, e dico purtroppo, perché il mercato è molto importante per la cultura, per il cinema, per tutto, perché appunto non si vive d’aria, e non esistono soltanto dei circuiti di mecenatismo. Bisogna anche che il pubblico apprezzi veda ecc. ma purtroppo Venezia non è più legata a dinamiche di mercato.

Il cortometraggio è se vogliamo una forma di espressione cinematografica democratica, spesso low cost, di sperimentazione artistica, e di iniziazione. Quanto spazio dà il mercato a questo genere di prodotto e quali le differenze con il lungometraggio?

R.: Prima di tutto per me parlare di cortometraggio è qualcosa di assolutamente anacronistico, nel senso che comunque il cortometraggio è un genere superato, e dirlo io che faccio un festival di cortometraggio da oltre 10 anni sembrerebbe un paradosso. Innanzitutto non ha nessuna senso paragonarlo al lungometraggio, il mondo del cinema vive su delle dinamiche e delle regole completamente separate. Il mondo dei video è un mondo vastissimo, ed è un mondo che ha un mercato suo totalmente diverso e slegato al mondo del cinema, non ha nessuna dinamica di sala, non ha gli stessi luoghi e non vive delle stesse regole. Il mondo del video è vastissimo, dai videoclip ai viral, i registi con i quali abbiamo inaugurato quest’anno Circuito Off che sono il turco Can Evgin e il francese Simon Cahn sono l’esempio perfetto di due giovanissimi registi, che vivono del loro lavoro e lavorano appunto non necessariamente facendo pubblicità. Il video che abbiamo mostrato commissionati da D&G, piuttosto che da Louis Vuitton sono dei video che sono delle opere d’arte. Sono dei video che sono stati commissionati da grandi firme per trasmettere in qualche modo la loro immagine, ma affidati a degli artisti e così i videoclip.

Youtube e i social network sono diventati il luogo ideale di diffusione dei corti, anzi, potremmo dire che grazie a FB molti hanno scoperto la letteratura e anche il cinema. Ma cosa occorre fare per non rimanere ghettizzati nel circuito dei festival e delle rassegne?

R.: Sicuramente, forse più che Yuotube che è molto generalista, un sito di riferimento per questa community è Vimeo, dove si possono scoprire dei talenti molto interessanti. Trovo che internet sia ancora uno dei pochi mezzi, nonostante cerchino di minarlo, veramente democratici. Io credo che questi prodotti non passano per le sale perché non nascono per le sale, ho assistito a duecento milioni di convegni su questa questione del futuro del cortometraggio, e sul mercato che non c’è, ma perché non c’è ed è inutile cercare qualcosa che non esiste. Cioè, il corto è un genere di tutto rispetto, però è molto evidente quando un regista fa un cortometraggio perché poi aspira a diventare un regista di lunghi metraggi, e quando un regista fa dei corti perché il la sua forma d’espressione da creativo è quella dei video, sono due cose diverse. E il mondo di cui noi cercheremo sempre di più di occuparci è quello del video, che un mondo come dicevo prima assolutamente slegato dal cinema, e che non ha neanche l’ambizione di arrivare al mondo cinematografico. Il video nasce proprio su altri canali e nasce prevalentemente per questi canali. Sono molto importanti gli eventi legati al video perché in questi eventi non solo circolano le opere ma la maggior parte dei video nascono e quando arrivano a un festival non ci vanno per iniziare la loro vita, molto spesso i video quando arrivano ai festival l’hanno già finita la loro vita è un punto di arrivo non d’inizio e questa è la cosa fondamentalmente diversa con il cinema.

Che rapporto c’è tra la grande kermesse della Mostra del cinema di Venezia e Circuito Off, di complementarità, di contrapposizione o cosa?

R.: Di contrapposizione non direi assolutamente, ci sono stati in passato dei momenti di collaborazione molto interessanti con Marco Müller, che è un direttore che io stimo moltissimo, che ha fatto un lavoro ottimo in questi ultimi anni a Venezia, portando la Mostra ad essere un festival di grande qualità. Siamo un evento che accade in contemporanea alla Mostra sicuramente, c’è questa contemporaneità, Circuito Off è nato per dei motivi ed evolvendo ne ha avuti degli altri, oggi continua per abitudine forse. Mentre quando Circuito Off è nato, è nato proprio come un evento in contemporanea alla Mostra del cinema, per essere vetrina dei giovani talenti, questa scissione, che oggi è sempre più forte a mio avviso, tra il nostro occuparci di video e in nessun modo di cinema, ci fa essere qualcos’altro insomma, quindi questa contemporaneità non è detto che continui. È nato con delle ragioni che sono cambiate nel tempo e che oggi forse non sono più così vere non lo so. Sicuramente non c’è contrapposizione con la Mostra, la complementarità bisognerebbe trovarla assieme forse.

I prossimi passi in avanti di Circuito Off? Progetti, evoluzione e obiettivi.

R.: Sicuramente quella che è l’identità che sempre più si sta marcando è quella di volersi occupare sempre più di video e non di cinema, il video non è cinema, forse il cinema diventerà sempre più video ma questo se lo devono chiedere quelli che fanno cinema non lo so. E quindi sì, forse c’è una riflessione anche sul nostro titolo che è Venice International Short Film Festival che forse andremo a cambiare. Stiamo sicuramente meditando su quella che è la definizione di cortometraggio e sul fatto che sia sempre più inadeguato a quello di cui ci occupiamo noi. Quindi c’è un problema lessicale, nel senso che l’unica parola che io posso usare per descrivere quello che noi facciamo è video.

Dopo 12 anni, siete diventati una vera avanguardia anche di tendenza. Rischiate di scivolare un po’ troppo nel patinato, perdendo forse un po’ di quella connotazione “Off” che vi ha caratterizzati…

R.: Il fatto che la stampa si accorga di noi, il fatto di essere arrivati comunque ai magazine femminili e maschili, forse era anche ora che si accorgessero che facciamo delle cose. Patinati non credo perché è un evento assolutamente informale rispetto anche al clima che si respira alla mostra del cinema, che ha un clima da red carpet. Non direi che questa sia l’atmosfera che si respira a Circuito Off in nessun momento, neanche diciamo nei momenti da cerimonia, l’apertura o chiusura molto spesso è informale. È un festival che nasce perché le persone si incontrino fra di loro, passino delle giornate a vedere dei video a studiare delle idee a conoscersi con molti ospiti internazionali che s’incontrano o si ritrovano.

A conti fatti l’avventura di pochi giovani ragazzi, parafrasando Battisti è diventata una storia sera. Di cultura quindi si può campare?

R.: Noi non viviamo solo di Circuito Off per nostra fortuna, perché siamo un gruppo di gente che poi comincia ad essere non così tanto giovane insomma, quando si è tanto giovani si hanno delle esigenze, poi quando si cresce se ne hanno delle altre. Però si possono fare tanti progetti, noi campiamo di cultura ma facciamo più cose. Diciamo che la risposta è sì, si può campare di cultura poi magari non basta fare un festival solo.

Manuela Caserta

lunedì 10 ottobre 2011

"Io sono lì" fuga e perdita di un'identità...

Per celebrare il poeta cinese Qu Yuan (III sec. a.C.) secondo la tradizione popolare, si accendono delle piccole lanterne rosse che si lasciano galleggiare cullate dall’acqua. L’acqua è il simbolo del fiume Milou, dove il poeta si gettò legandosi a una pietra, quando decise di suicidarsi. La sua gente tentò disperatamente di salvarlo, cercandolo a lungo nel fiume a bordo delle cosiddette barche drago, gettando riso ai pesci per tenerli distanti dal suo corpo, ma non ci fu niente da fare. Si disse poi che il poeta morì a causa di un drago del fiume. Io sono lì comincia così, con la celebrazione di un’antica tradizione popolare cinese, nell’acqua di una vasca da bagno, lontano da fiumi e terra d’origine. Shun-Li è il nome di Zhao Tao la bravissima protagonista del film, emigrata in Italia pagando un debito da estinguere lavorando, alla mafia cinese, e lasciando il cuore in Cina dove ha dovuto lasciare anche il figlio insieme al padre. Storia di emigrazione, ambientato tra Roma e Chioggia, dove Li verrà spedita a lavorare. Le atmosfere neorealiste lagunari incupiscono il film, avvolgendolo in una malinconia invernale che solo una sceneggiatura (regia e sceneggiatura di Andrea Segre, co-sceneggiatore Marco Pettenello) ben fatta, è capace di mitigare strappandoti dalla fuga. La poesia è il mood in sottofondo del film, che arriva dall’acqua, da quella laguna che Shun-Li definisce in una lettera al figlio, una donna calma e misteriosa. Filtra la luce calda del tramonto, che passa attraverso gli sguardi dei due protagonisti del film, entrambi stranieri entrambi senza più radici. L’umorismo dei pescatori che si ritrovano puntualmente al bar, è la pantomima della finta accoglienza riservata allo straniero. Va tutto bene, fino a quando lo straniero non sconfina nella tua quotidianità, a piccoli e timorosi passi. Così, quando nasce una tenera amicizia tra Li e Bepi il poeta pescatore della laguna, gli amici di sempre seminano diffidenza e razzismo, trincerandosi nella cultura del sospetto. Le atmosfere mi hanno ricordato un’altra bellissima opera prima, Dieci inverni di Valerio Mieli. Io sono lì è titolo e significato dell’intero film, racconta il silenzioso dolore che vive nelle vite in fuga di interi popoli, la dissociazione e l’automatismo con i quali si ripetono giorni uguali a se stessi, tutto finalizzato ad affrancarsi da un debito di libertà. Pochi giorni fa si è celebrato il 62esimo anniversario dalla nascita della repubblica popolare cinese, e una gigante lanterna rossa alta 15 metri e larga 50 è stata allestita in piazza Tienanmen, la stessa piazza simbolo della violenta repressione del 1989. Un film esile che tocca delicatamente note profonde, dove emerge la fotografia di un pezzo di bel Paese eternamente in attesa, triste, vecchio e ignorante.
Un Paese dove la poesia non basta più…

Manuela Caserta

lunedì 26 settembre 2011

Mansoura Ez Eldin: «La rivoluzione sul Nilo non è ancora finita»

Ogni rivoluzione che si rispetti, passa prima attraverso le parole e poi attraverso i fatti. Sono passati poco meno di nove mesi dall’onda insurrezionalista che ha cambiato il volto dell’Egitto e delle generazioni future di quel Paese. Ma le rivoluzioni si preparano e si pianificano, camminano lente a piccoli passi, cominciano nei sogni dei loro figli, diventano parole, poi pagine, libri e infine storia. Mensoura Ez Eldin è una giovane giornalista del Cairo, che con Oltre il Paradiso (Beyond Paradise) è entrata nella rosa dei finalisti del Prize of Arabic Fiction del 2010. Salma, la protagonista del suo libro, è una giovane donna che lascia il suo paese d’origine per inseguire i suoi sogni, ma quando diventa donna adulta ed emancipata, torna a fare i conti con le proprie radici. Salma è lo specchio di una generazione, quella che si è ribellata in nome del proprio futuro. La stessa che ha capovolto un regime pagando la libertà anche con la vita.

Oltre il Paradiso è un titolo evocativo. Cosa c'è oltre il paradiso?

R.: L'inferno può esserci oltre il paradiso. Ho optato per questo titolo perché è aperto a tutte le interpretazioni. Io amo il Paradiso come parola, ma credo che sia una parola o un concetto molto sfuggente. È sempre stato usato per controllare le persone. Il romanzo, dice che il Paradiso è solo un punto di vista e ognuno ha il suo paradiso o diciamo che ha un proprio concetto di esso. La follia è il paradiso di un carattere, il passato è il Paradiso per un altro personaggio ... ecc

Un libro nato vicino alla rivoluzione e che parla di rivoluzione, intima personale, ma che rompe i vecchi codici sociali. Quanto può far male conquistare la libertà?

R.: "Mi sento come se vivessi un solo giorno senza fine che continua a ripetersi, sono in un costante stato di déjà vu. Tutto quello che ho visto passare attraverso, mi sento come se avessi già vissuto prima, tutto ciò che succede intorno a me...Sembra una replica eterna di un unico evento che una volta ho vissuto durante l'infanzia. Nulla cambia nella mia vita. Nulla cambia nel Paese che viviamo, è come se ci trovassimo di fronte ad un solo giorno, in cui un solo e unico insieme di eventi immutabili si svolge". Questo passo del romanzo è sempre stato nella mia mente durante i primi giorni della rivoluzione, perché ha molto da dire sul perché la rivoluzione era una necessità per il mio Paese. Sono contenta che hai notato che il mio libro ha cose in comune con la rivoluzione ed è sulla rivoluzione personale. Per quanto riguarda la libertà, che non fa male a tutti, abbiamo avuto un forte desiderio di libertà e ho ancora molta nostalgia di essa. La nostra rivoluzione è ancora incompiuta perché lo SCAF (il consiglio supremo delle forze armate) sta cercando di uccidere l'anima della rivoluzione e cercando di riprodurre il regime di Mubarak con un nuovo look.

I regimi fanno paura, ma ora, dopo aver scritto una delle pagine più importanti della storia dell'Egitto, qual è la paura più intima che vi portate dentro?

R.: la rivoluzione ha dimostrato che questo regime brutale,non fa paura come si pensava prima. Il regime era codardo e fragile dentro. La rivoluzione ha aiutato gli egiziani ad affrontare tutti i demoni della paura, frustrazione e disperazione. Il sentimento più intimo che ho adesso è la speranza.

Per cosa hai dovuto lottare nella tua vita?

R.: Ho dovuto combattere per tutto quello che ho ora. Ho lottato per vivere in modo indipendente, ho lasciato il mio paese quando avevo appena 18 anni, per andare a vivere da solo al Cairo. Ho lottato per rimanere al Cairo, dopo aver completato i miei studi presso l'università, per vivere come voglio. Ma per riassumere tutti questi passaggi è stata una lotta per una maggiore libertà, una lotta per la persona che sono veramente.


Ma cosa è davvero cambiato nella vostra vita quotidiana dopo la caduta di Mubarak?

R.: È troppo presto per capire cosa è cambiato in materia di diritti sociali e di diritti delle donne in particolare, perché la rivoluzione non è ancora completata. All'interno di questi ultimi mesi, abbiamo scoperto che il regime di Mubarak non è completamente crollato. Lo SCAF sembra che fingesse di essere con la rivoluzione solo per ucciderlo. Le donne hanno svolto un grande ruolo nella rivoluzione, ma lo SCAF, il ministro Essam Sharaf, e gli islamisti radicali hanno ignorato questo ruolo.

Lei si definisce non credente, ma la religione è davvero incompatibile con qualsiasi forma di democrazia?

R.: La parola laica è più precisa nel mio caso, io non sono un atea. Credo che il problema non sia nella religione in se, piuttosto il problema si trova in alcune interpretazioni della religione. Credo che le considerazioni religiose debbano essere escluse dalla politica o dagli affari civili.

Quali autori e scrittori hanno influenzato la sua formazione?

R.: Direi Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, William Faulkner, e, naturalmente, Fëdor Dostoevskij.

Se potesse dare un premio Nobel per la letteratura a chi lo assegnerebbe?

R.: Se mi fosse stata fatta la stessa domanda 4 anni fa avrei scelto il poeta palestinese Mahmoud Darwish, morto nel 2008. Ma per ora, credo che Paul Auster meriti il premio.


Parafrasando Martin Luther King "You have a dream"?

R.: Ho un sogno sì, vedere l'Egitto diventare un Paese democratico moderno.


Manuela Caserta

giovedì 22 settembre 2011

Fulvio Abbate: «Rimane il fatto che Pasolini possiamo mettercelo in camera come poster, mentre il poster di Sciascia in camera io non me lo metterei»

Una lunga intervista all’autore di Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi, edito da Dalai editore. Un’intervista che va oltre il libro scritto da Fulvio Abbate, dove sono raccolti frammenti di storia di un tempo e di un’Italia di cui rimane solo un eco lontano. Un libro dove vi sono anche testimonianze del pensiero di Pasolini uomo e scrittore, raccontate attraverso il vissuto di chi ha avuto la fortuna e l’opportunità di conoscere e frequentare il poeta confidenzialmente, come l’amica e giornalista Adele Cambria.

Pasolini rimane uno degli scrittori più citati, un modello di riferimento, un baluardo di verità ancora unico, e la forza del pensiero pasoliniano va ravvisata non solo nel vuoto dei tempi che viviamo, ma anche nel suo coraggio, quello di andare sempre e comunque contro il conformismo che spegne lo spirito critico.

Da C’era una volta P.P.Pasolini a P.P.Pasolini raccontato ai ragazzi cos’è cambiato?

R.: Intanto sono passati sei anni, ed è sempre più aumentato l’appiattimento del tema Pasolini, riferito unicamente alla questione criminale, al delitto. E chi dovrebbe diciamo rivendicare l’antagonismo pasoliniano, la sinistra, penso a Veltroni che addirittura ha proposto la riapertura del processo, invece si è sempre più appiattita su un conformismo di grado zero. Ecco questo è accaduto.

A proposito dei problemi della sinistra, nel suo libro mette Veltroni al centro di tutti questi problemi, perché?

R.: Sì lo metto al centro dei problemi, per due motivi, intanto perché Veltroni è uno degli interlocutori privilegiati fra i giovani ragazzi scelti da Pasolini negli anni 70, poco prima della sua morte. C’è una foto scattata in pieno centro a Roma, dove Pasolini guarda Veltroni, dietro i suoi occhiali RayBan con il parasudore, e sembra dire: «ma questo che pesce è?». Il secondo motivo è che c’è una centralità romana, una centralità di un certo establishment culturale conformista di sinistra romano, e nessuno come Veltroni, dopo il Pci di Togliatti, si è posto un problema di egemonia culturale a sinistra. Con la differenza che questa, per Togliatti coincideva diciamo con la conquista delle università, con Veltroni coincide con la conquista del consiglio di amministrazione della Rai. O se non la conquista, almeno attraverso un controllo parziale di esso, non a caso l’ultimo suo atto politico prima di lasciare la segreteria del PD, è stato piazzare un suo uomo di fiducia, tale Van Straten, sedicente scrittore nel cda della Rai.

“Sedicente”?

R.: Sì sedicente, perché uno scrittore vero non va a fare il burocrate pagato in viale Mazzini. Piuttosto, come diceva Pasolini, accetta di essere la contestazione vivente, e non vive nell’orgoglio di avere l’auto blu con l’autista.

La prefazione di Niki Vendola e l’atto d’accusa lanciato a Veltroni sembrerebbero fare il paio con una presa di posizione politica però, invece?

No può sembrare sia così, invece no. Innanzitutto la presenza della prefazione di Niki Vendola dipende da due cose: Vendola è stato uno dei primi recensori su Rinascita, del mio primo romanzo, Zero maggio a Palermo, pubblicato nel ’90, gli anni in cui faceva il giornalista. Poi Vendola è l’unico politico, che si sia mai laureato, che noi si sappia, con una tesi su Pasolini poeta, questa è l’unica ragione. Quindi non c’è nessuna adesione da parte mia di posizione politica rispetto a che ne so, a Sinistra Ecologia e Libertà.

Il solito vizio della sinistra è quello di cercare sempre un capro espiatorio a tutti i propri mali, ma per il resto, da dove si ricomincia?

R.: la sinistra oggi non esiste più, esiste solo la flora batterica bruciata della sinistra. E Veltroni non è solo in quest’opera di smantellamento, D’Alema accanto a lui, con la differenza che a D’Alema interessa la finanza e ha un rapporto meno invasivo rispetto alla gestione della cultura. È tutta lì la differenza, è inutile che noi si parli ancora di sinistra, perché la sinistra non c’è più in questo Paese.

E quindi Di Pietro cos’è?

R.: No, Di Pietro è un altro soggetto, Di Pietro è un ircocervo che mette insieme elementi di giustizialismo, e qui dovremmo spiegare cosa significa esattamente giustizialismo, che è un termine che viene dall’Argentina con Peron. Poi, elementi di populismo giustizialista da una parte, e dall’altra pezzi di una sinistra delusa oppure alla deriva, che hanno visto per un attimo in Tonino una specie di sopravvissuto, com’era già accaduto vent’anni fa con la Rete di Leoluca Orlando. Però non è che la falce e martello e i suoi derivati successivi, possano mai più pensare di avere un loro controllo sull’elettorato, è finito quel tempo. Io non mi considero più di sinistra, mi rifiuto di definirmi di sinistra perché in nome della comune appartenenza si tende a chiederti una delega in bianco. E io da una parte mi rifiuto di consegnare la mia delega e dall’altra credo che, da scrittore e artista quale sono, di avere appunto come diceva Pasolini, il dovere di essere sempre e comunque opposizione.

Secondo lei il popolo di sinistra è sempre appeso alla speranza che arrivi un leader?

R.: Bè pochi giorni fa è bastato che si pensasse che Manuela Arcuri non aveva ceduto alle lusinghe del premier perché diventasse un’eroina della sinistra. Dopo sono uscite le intercettazioni dove si è capito che invece, in cambio di un ruolo per il fratello in una fiction, avrebbe potuto cedervi e si è passati alla delusione. Se adesso arrivasse un canguro sarebbe lo stesso…

Quindi si continua a vivere di sepolcri, di miti insuperabili ?

R.: la sinistra italiana non conosce la laicità, viene in larga parte dal partito comunista che aveva un atteggiamento fideistico nei confronti dei suoi leader e dei suoi dirigenti come Togliatti e Berlinguer. Ancora adesso viene pronunciato il nome di Berlinguer, intanto è morto questo Berlinguer, e poi è stato un signore che ha collezionato ogni sorta di sconfitta politica nella sua vita, era onesto sì, ma la virtù, dicevano gli antichi, è premio a se stessa.

Lei ha scritto Zero maggio a Palermo, e proprio recentemente dalle pagine di Repubblica –Palermo lo scrittore Alajmo, ha sentenziosamente sostenuto che nessuno fra tutti i famosi romanzieri siciliani fin’ora esistiti, sia mai stato in grado di scrivere il cosiddetto “romanzo di Palermo” per definizione. Cosa ne pensa?

R.: Il mio libro era un libro che da una parte aveva proprio la pretesa di essere il “romanzo di Palermo” ma dall’altra raccontava in fondo il mondo della passione politica, raccontando l’affabulazione diciamo di quel mondo, del mondo del comunismo. Quindi un libro bifronte, che non può avere la pretesa di essere il romanzo di Palermo. Ad oggi non credo ci sia, ma prima o poi arriverà, prima o poi qualcuno lo scriverà, ma non c’è un modo di scrivervi sopra. Palermo è un genere così come la Banda della Magliana è diventato un genere, i film denuncia sulla mafia degli anni 70-80 mostravano in modo chiaro netto quella realtà, quelli che vengono fatti adesso sono puro genere dove Palermo è solo un fondale di carta, questa è la mia sensazione.

Perché ha sentito l’esigenza di raccontare Pasolini ai ragazzi?

R.: Per il coraggio. Pasolini per alcuni era un frocio che è stato ammazzato, e quindi il mistero è da “Chi l’ha visto”. Per altri ancora era un regista che ha fatto Salò, per altri ancora era l’autore degli Scritti Corsari, e di «io so il nome dei responsabili». Mentre la cosa più significativa di lui è stato il coraggio. È stato a mio parere anche un grande narratore, Una vita violenta è un romanzo bellissimo a leggerlo ancora adesso, ha scritto dei versi straordinari che potrebbero essere venduti anche in forma di cartolina, per raccontare il passaggio dall’Italia post-bellica contadina all’Italia contemporanea.

Ha detto quello che stava per accadere alla società italiana, cosa pretendiamo più di questo? Ditemi una sola parola che ha detto Leonardo Sciascia di cui abbiamo memoria, «professionisti dell’antimafia» questo ci ricordiamo di lui. Rimane il fatto che Pasolini possiamo mettercelo in camera come poster, mentre il poster di Sciascia in camera io non me lo metterei.

Manuela Caserta

mercoledì 14 settembre 2011

Terraferma di Emanuele Crialese: non è retorica non è poesia. È la ruvida bellezza dei fatti.

Si è vero che la Mostra internazionale del cinema di Venezia soffre di esterofilia. È quasi un dovere oramai dopo 68 edizioni, non smentirsi neppure una volta. E dunque a Terraferma di Emanuele Crialese è andato solo il Premio speciale della giura della Mostra del cinema più importante in Italia.
Va riconosciuta e sottolineata la bravura, su un ruolo ritagliato perfettamente sul soggetto, di Filippo Pucillo, giovane attore lampedusano che ancora bambino, prese parte ad un altro significativo film di Crialese, Respiro. Seconda opera cinematografica del regista, che ha esordito in terra straniera a New York, con il film Once we were strangers, primo film italiano ammesso al Sundance Film Festival di Robert Redford.

Tralasciando il curriculum vitae di Crialese, cosa mi ha conquistata intanto? La fotografia in primis, bellissima, intensa, realistica e tridimensionale. Il film si apre su un fondale blu, che già proietta l’immaginazione oltre, rapiscono i colori forti, naturali veri dell’isola (di Linosa) dove il film è stato girato. La sabbia nera, vulcanica, la terra arida, un’isola che è uno sputo in mezzo al mediterraneo. Eppure le immagini ti fanno sentire dietro quell’occhio fotografico, sei tu che rubi le immagini (fotografia di Fabio Cianchetti) e vai incontro ai personaggi, quasi ci parli muta, come una che ha da ascoltare una storia. I dialoghi sono prevalentemente in siculo isolano, forti, cantilenanti e mimati, c’è tutta la fisicità espressiva del sud. Filippo Pucillo nella parte dell’adolescente che impara a pescare con il nonno paterno, è intenso e puro, ha tutta la bellezza del ribelle selvaggio che conserva l’incanto. Quasi un piccolo e drammatico Gennarino Carunchio. I dialoghi passano in secondo piano, tutto il film ruota intorno alle loro facce, ai loro visi bruciati dal sole e solcati dal mare. Non tacciate il film di sentimentalismo, sarebbe un atto d’invidia gratuito. Le emozioni filtrano e si fermano come un nodo in gola sì, ma il film è una fotografia reale e cruda dei fatti accaduti. Tutto il resto, la poesia, la luce, i pescatori che si ribellano all’ingiustizia legale invocando il codice del mare è storia di umanità, di regole da marinai. Il mare non perdona se abbandoni un uomo in mare, e questo i pescatori lo sanno, lo rispettano, è una questione d’onore. La bellezza ruvida dell’isola è quasi imperdonabile, eppure è bellezza che tace sulla storia.

Fa riflettere questo film, fa riflettere sulla tragedia degli sbarchi, dei profughi sulle carrette del mare, della legge che vieta ai pescatori in mare, che avvistano una carretta di non avvicinarsi, di non caricare nessuno,di lasciare in mare fino all’arrivo della capitaneria i disperati. C’è una scena fortissima nel film, che esprime il senso e la portata del dramma. Filippo, il giovane adolescente, ruba un gozzo con la lampara di notte, e porta a fare un bagno al buio un’amica milanese in vacanza. I due si fermano in angolo di mare meraviglioso, accendono la lampara e il mare rivela la sua bellezza, viene voglia di tuffarsi in quel blu. Ma mentre lei fa il bagno, Filippo sente dei rumori, sposta la lampara verso il largo e il mare nero brulica di disperati che cercano voracemente di raggiungere a nuoto l’imbarcazione. Filippo si fa prendere dal panico, sa che non può farlo non può salvarli, ha rubato il gozzo, è solo con una ragazza, vigliaccamente cerca di fuggire, allontana i disperati che si attaccano al gozzo quasi capovolgendolo. Lui si agita li bastona, la scena è cruda, forte, c’è disperazione, sensi di colpa, e tutta la vigliaccheria impotente di un ragazzino che per non commettere un reato si ritrova il giorno dopo, con una coscienza da affogare per timore di aver commesso un delitto, tradendo la legge del mare.

Donatella Finocchiaro è brava come sempre, interpreta la voglia di fuggire con la malinconia negli occhi. Il nonno Ernesto (Mimmo Cuticchio) è la quercia cresciuta su quello scoglio, non ha radici sulla terra ferma e non ne vuole. Beppe Fiorello, è il cinico piccolo imprenditore locale, fa divertire i turisti, e interpreta il nuovo che avanza, la generazione che scavalca la tradizione, l’omologazione in pieno stile tammarreide.
È uno di quei film che andrebbe proiettato nelle scuole, che trova la sua bellezza nel ruvida verità, non ci sono cifre stilistiche da decantare. Semplicemente ci sono cose che neppure un Tg ha il coraggio di spiegarti come fa il cinema.
Ps: soffermatevi a leggere i titoli di coda, perché un film è fatto anche dell’opera dei tanti piccoli artigiani e artisti da backstage. Ma soprattutto la colonna sonora finale vi cullerà nel farlo.

Manuela Caserta

sabato 10 settembre 2011

Non parlate al conducente. Segnali urbani di poesia...

Incontro Massimiliano Coccia, giovane scrittore e autore teatrale, in un bar del centro di Roma la sua città, e la mia per adozione. Ma lui su Roma e la periferia, ci ha fatto un corto dal titolo Roma, un giorno diretto da Matteo Botrugno, un corto di qualche anno fa che ti lascia il sapore di una Roma “pasoliniana” attraversata da una luce che illumina di bello anche la periferia più abbandonata. Così giovane e così pieno di cose già scritte e pubblicate: sei libri, tre docufilm, un corto, due piecè teatrali, già diversi premi vinti e una casa editrice appena nata. Il suo libro d’esordio è stato Gli occhi di Piero. Storia di Piero Bruno, un ragazzo degli anni 70, l’ultima sua fatica letteraria si intitola Non parlate al conducente (edito Giulio Perrone), una raccolta di poesie impregnate di quotidianità metropolitana, di attimi fuggenti immortalati come una fotografia in versi. Incontri e scontri di sguardi e riflessioni sulla decadenza di un Paese che di poesia ne avrebbe davvero tanto bisogno.

Non parlate al conducente un libro che è una raccolta di poesie. Com’è nato?
R.: Il libro è uscito ad aprile per la Giulio Perrone Editore ed è nato in maniera istintiva, perché per me la poesia è il bozzetto di qualsiasi €composizione. Prima di scrivere un racconto, una sceneggiatura, un riadattamento teatrale, comincio sempre da una poesia.

Un po’ sentimentalista?
R: No secondo me ognuno di noi ha una forma letteraria nella quale si sente inevitabilmente libero, la mia è quella. Con il fatto che è il genere meno letto, il meno commerciale che c’è, non hai delle necessita di sorta, nel senso, non hai degli obblighi. Mentre il racconto poi lo devi sottoporre a delle rivisitazioni a delle riletture, quindi poi diventa un lavoro collettivo perché ci lavori con l’editor, con la casa editrice, un romanzo è comunque un’operazione collettiva.

La licenza poetica ti elimina l’incubo dell’editor quindi?
R: Bé più che altro perché è un genere comunque lasciato a se stesso, questo purtroppo lo dequalifica perché in realtà la poesia nella storia della letteratura italiana è alla base di quello che siamo linguisticamente, di quello che comunque abbiamo composto.

Ma quanto spazio c’è per la poesia nella nostra società e nell’attuale panorama editoriale e culturale?
R.: Poco spazio, gli editori che investono e non si fanno pagare per pubblicare la poesia sono pochi. Se pensi che al di là delle piccole case editrici, c’è Perrone, i Libri Bianchi di Einaudi, mentre Feltrinelli fa quasi solo le antologiche. Sono sempre l’1% di tutta la produzione, se noi parliamo in termini di stampa delle copie è ancora di meno, cioè si presume che sia veramente un prodotto intimo. Ma questa cosa purtroppo dipende principalmente dal fatto che l’editoria a pagamento uccide tutto questo. Poi se pensi che Bondi fa poesie…
Alla fine mancando la critica letteraria intesa come un tempo era, manca spesso la selezione della qualità. Prediligere la quantità in poesia significa proprio andare contro la poesia stessa.

Gli occhi di Piero. Storia di Piero Bruno, un ragazzo degli anni 70 ha segnato il tuo esordio letterario. Ma cosa è cambiato da allora a oggi nella tua vita da scrittore, quanto è difficile vivere di scrittura?
R: É comunque sempre una lotta, che alla fine della giornata ti fa più felice, ma comunque una lotta molto dura perché quando ho cominciato a scrivere libri anche il panorama era ancora un po’ differente, c’era già cinque o sei anni fa, l’idea che di questo mestiere puramente ci si potesse vivere. Col tempo invece capisci che non è così. La grande lotta è comunque trovare delle cose che non ti allontanano da quello che per me è la mia vocazione, il mio motivo di vita fondamentalmente. Dal 2008 ad oggi è cambiato anche il mondo del giornalismo, è tutto diventato più precario, meno strutturato e qualitativo, tutto è lasciato all’improvvisazione. Una cosa che ci vogliono far credere è che per fare questo tipo di lavoro non occorra soffrire, non occorra patire, molti ti danno sempre l’idea che un autore si sia svegliato la mattina e sia stato pubblicato. Molte cose creano l’illusione di un successo letterario effimero, e invece no, dietro ci sta spesso tanta tanta gavetta.

Cosa ne pensi dei premi letterari come lo Strega ad esempio.
R: Io penso che ogni libro è rispettabile perché rappresenta qualcosa di grande che l’autore esprime, sia se la critica lo ritiene mediocre o no, però penso che sono anni, credo forse da quando ha vinto Ammaniti, che manca il libro del premio Strega, cioè il libro che è destinato a rimanere. Il premio Strega comunque, come tanti altri premi letterari è un po’ la cartina tornasole di questo Paese, spesso la cooptazione che tu hai in Parlamento ce l’hai sui premi letterari.

Cosa ne pensi dei corsi di scrittura creativa?
R: I corsi di scrittura creativa intanto sono utili per una cosa, perché insegnano alle persone a scrivere, io ho visto persone che miglioravano la propria grammatica italiana, e se questo migliora il livello culturale del Paese bene venga. Poi è chiaro, non può essere il metodo per diventare scrittori.

Nei tuoi progetti c’è anche fare l’editore, hai appena creato la casa editrice Ensemble
R: Io e Matteo Chiavarone, che è un autore, un poeta e un giornalista culturale, ci siamo detti che magari era bello creare qualcosa in cui ci fosse attenzione a tanti aspetti legati all’editoria. Aspetti legati alla distribuzione, al fatto che un autore non venisse lasciato solo, al fatto che saltasse il vincolo odioso dell’editoria a pagamento, che ci fosse un criterio meritocratico nella scelta. Riflettendo su tutti questi aspetti ci siamo detti proviamo a farlo noi.

Cosa manca culturalmente in una città come Roma secondo te?
R: Roma, come diceva Andy Warhol, “è l’esempio di cosa succede quando i monumenti durano troppo”. E Roma è questo, di fatto è una metropoli che non è cresciuta in questi anni. L’idea di città costruita dal modello Alemanno è stata quella di chiuderla nella ZTL, riempirla di militari dell’esercito, blindarla e seminare l’idea della paura. Tutte cose che non comunicano alla cittadinanza un alfabeto di convivenza, se non la fai sentire parte integrante della metropoli in cui vive, del suo quartiere del luogo in cui risiede, è normale che il cittadino non ha più amore per la sua città.

Manuela Caserta

mercoledì 7 settembre 2011

Questione di esercizio...

Una pagina bianca e un prurito sulla punta delle dita che mi incita a lasciar scorrere le mani sui tasti di questo pianoforte.
“Scrivi scrivi!” suggerisce una vocina da dentro. Non puoi fermarti, le idee e la creatività albergano lì dove trovano la foce alla quale approdare. Può darsi, mi ripeto fra me e me. C’è un film che mi ritorna sempre in mente in questi casi, si intitola “Questioni di cuore” di Francesca Archibugi.
I protagonisti sono Kim Rossi Stuart, bello come sempre, proletario, pragmatico e vera anima letteraria dell’intero film, e Antonio Albanese sceneggiatore con il blocco dello scrittore. I due si incontrano nella sala rianimazione di un ospedale, e lì diventeranno amici, due mondi diversi che si aggrappano l’uno all’altro. Alberto (Antonio Albanaese), non riesce più a scrivere, schiacciato da una crisi di creatività, in preda all’ansia da prestazione, all’affitto da pagare, sfugge alle incalzanti telefonate del produttore, e fugge in modo orgogliosamente distruttivo dall’abbraccio della sua compagna (Francesca Inaudi), bravissima, che nel film fa l’attrice.

È insostenibile per lui quell’atavica responsabilità di non sapersi mai abbandonare ai propri “fallimenti”, di fronte ad una donna poi no, mai. Così si fa lasciare da lei, la allontana e da solo comincia la traversata nel deserto delle idee.
Alberto, apre la porta di casa come se aprisse quella di un altro mondo. Un mondo non suo, che affaccia sulla periferia della vita, dove non si ha il privilegio di vivere scrivendo (ammesso che esista davvero). E non si hanno sogni da regalare alla gente, scrivendo un film. Anzi. In questo mondo, non si ha tempo di sognare. Eppure in mezzo a lamiere di auto d’epoca da restaurare, con le mani sporche di grasso e fatica Angelo, lo rimetterà al mondo. C’è un gioco divertente che nel film, Alberto, insegna al figlio di Angelo, un gioco che io faccio spesso da sola, e che scommetto piace fare a chiunque piaccia osservare.

Questo gioco consiste nell’osservare le persone che ti passano davanti e immaginarne la vita, il lavoro, i difetti i vizi e i pensieri. Da come si muovono, da come gesticolano, dal loro sguardo, dalla camminata, dall’espressione che hanno in faccia. Se vi capita mai di stare comodamente seduti al tavolino di un bar nel centro della vostra città, a scaldarvi al sole, lasciando libero di vagare il vostro sguardo, uno scorcio di vita vi si parerà davanti, e ci ritroverete dentro il frame di un film, la pagina di un libro, un pensiero da annotare, una battuta, un sorriso un nome. Dalla periferia di una città, Alberto attraversa il suo deserto, ritrovandovi quelle cose della vita che aveva perso per strada. Ricominciando da un’amicizia vera, che gli lascia affetti da curare, vuoti da colmare e storie di cui scrivere. Un viaggio dentro se stesso, intenso e lento, che gli riapre la finestra dell’immaginazione. E quando la storia finisce drammaticamente, la scena finale si svolge di notte, la notte dello scrittore. Quelle lunghe notti insonni e calde, passate ad osservare fuori dalla finestra il Tevere, i passanti e le luci di Roma.
E dopo cosa succede? «Questa è la domanda, la risposta è la storia».

venerdì 29 luglio 2011

George Steiner: «La cultura occidentale è come il Castello di Barbablù»


Il Castello di Barbablù è una drammatica favola del diciassettesimo secolo, nata dalla penna di Charles Perrault, che Bartòk agli inizi del 900, ispirandosi al testo reinterpretato dal poeta ungherese Bèla Balàzs, trasformò in un’opera lirica. Divenne nel tempo, lo schema e la metafora, dell’intera cultura di un secolo, che il critico letterario, filosofo e comparatista George Steiner, ha preso ad emblema di un suo libro, dal titolo appunto Nel Castello di Barbablù, riedito in Italia da Garzanti.
La favola racconta la storia dell’ultima moglie di Barbablù, che riceve dallo stesso le chiavi della sua casa, con il permesso di aprire tutte le porte tranne una. Quell’ultima porta segreta, che la principessa andrà ad aprire lo stesso, le svelerà l’orrore che vi era nascosto. Ovvero le teste mozzate di tutte le precedenti mogli di Barbablù. Questa drammatica scoperta si trasformerà, attraverso le penne dei poeti che la reinterpretarono, a emblema della cultura occidentale: una infinta galleria di porte aperte, che ove l’oscurantismo insito nelle culture etnocentriche e xenofobe, come è accaduto nel corso del ventesimo secolo, ne chiudesse una, potrebbe determinare la decadenza di un intero sistema culturale. George Steiner è stato critico del New Yorker per quasi un trentennio, fino a quando, l’istinto a dire sempre ciò che pensa non gli causò la rottura con il direttore Tina Brown che lo liquidò in “45 secondi” a suo dire. Nel suo Castello di Barbablù, George Steiner, parigino di origini ebraiche, illustra quella che egli stesso definisce, nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano Repubblica, una «civiltà intrappolata in una serie ininterrotta e violenta di crisi, passando da quella che era l'identità di una cultura dominante alla post o sub-cultura odierna».

Un’analisi approfondita del sistema culturale occidentale, che parte da lontano, ma nella quale, una delle cause di questa decadenza è da ravvisarsi secondo Steiner, anche e soprattutto nella frantumazione dell’apparato istituzionale scolastico, la sede di quell’istruzione primaria, che per lungo tempo ha mantenuto alti i livelli di competitività di alcuni paesi europei. La crisi gravissima che sta attraversando il sistema d’istruzione in Italia, Francia e Inghilterra, mette in seria discussione la formazione sociale e politica delle nuove generazioni, che finiscono a riempire in qualità di funzionari, gli apparati amministrativi e burocratici delle istituzioni, senza nutrire il minimo interesse verso la politica e dunque la partecipazione sociale. «Una demolizione progressiva del linguaggio travolto dall'immagine, soprattutto da quella telematica» la definisce Steiner, dovuta anche alla delegittimazione sociale ed economica di mestieri come quello d’ insegnante.

Un libro che parte dai secoli passati, analizzando i vuoti storici, e i “danni” se così si può dire, provocati dell’ottimismo illuministico. Per giungere fino alla Seconda guerra mondiale definita per l’Europa «una morte biologica, sociale ed economica molto estesa, dalla quale non ci siamo più ripresi». Tre le cause che lo scrittore e filosofo ravvisa alle origini dell’odio che portò all’Olocausto: l’invenzione del monoteismo, “Un Dio irrangiungibile e innominabile «Un Dio impossibile da tollerare, che strappa l'uomo alla libertà creativa del politeismo». Seconda causa scatenante, derivante forse da un’inguaribile complesso di colpa, proprio del Cristianesimo, si riassume nel dogma: «perdona il nemico, porgi l'altra guancia». Definita da Steiner «Una negazione dell'io non affrontabile, un imperativo destabilizzante per la più autentica natura umana». La terza e ultima causa risiede esattamente nell’opposta utopia «messianica del marxismo e del sogno socialista che pretende d'imporre all'uomo la rinuncia al profitto e all'egoismo: irrealizzabile. In astratto possiamo essere d'accordo con Mosè, Cristo e Marx, ma non potremo mai vivere seguendo i loro ideali».
Un’analisi laica, prorompente, che inchioda oltre un secolo di strutture culturali, attraversando tutte le porte del Castello di Barbablù, anche quelle proibite.

Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online il 28 luglio 2011