Pensiero del giorno

•‎In un momento della vita, al momento giusto, bisogna poter credere all'impossibile Christa T. - di Christa Wolf

lunedì 26 settembre 2011

Mansoura Ez Eldin: «La rivoluzione sul Nilo non è ancora finita»

Ogni rivoluzione che si rispetti, passa prima attraverso le parole e poi attraverso i fatti. Sono passati poco meno di nove mesi dall’onda insurrezionalista che ha cambiato il volto dell’Egitto e delle generazioni future di quel Paese. Ma le rivoluzioni si preparano e si pianificano, camminano lente a piccoli passi, cominciano nei sogni dei loro figli, diventano parole, poi pagine, libri e infine storia. Mensoura Ez Eldin è una giovane giornalista del Cairo, che con Oltre il Paradiso (Beyond Paradise) è entrata nella rosa dei finalisti del Prize of Arabic Fiction del 2010. Salma, la protagonista del suo libro, è una giovane donna che lascia il suo paese d’origine per inseguire i suoi sogni, ma quando diventa donna adulta ed emancipata, torna a fare i conti con le proprie radici. Salma è lo specchio di una generazione, quella che si è ribellata in nome del proprio futuro. La stessa che ha capovolto un regime pagando la libertà anche con la vita.

Oltre il Paradiso è un titolo evocativo. Cosa c'è oltre il paradiso?

R.: L'inferno può esserci oltre il paradiso. Ho optato per questo titolo perché è aperto a tutte le interpretazioni. Io amo il Paradiso come parola, ma credo che sia una parola o un concetto molto sfuggente. È sempre stato usato per controllare le persone. Il romanzo, dice che il Paradiso è solo un punto di vista e ognuno ha il suo paradiso o diciamo che ha un proprio concetto di esso. La follia è il paradiso di un carattere, il passato è il Paradiso per un altro personaggio ... ecc

Un libro nato vicino alla rivoluzione e che parla di rivoluzione, intima personale, ma che rompe i vecchi codici sociali. Quanto può far male conquistare la libertà?

R.: "Mi sento come se vivessi un solo giorno senza fine che continua a ripetersi, sono in un costante stato di déjà vu. Tutto quello che ho visto passare attraverso, mi sento come se avessi già vissuto prima, tutto ciò che succede intorno a me...Sembra una replica eterna di un unico evento che una volta ho vissuto durante l'infanzia. Nulla cambia nella mia vita. Nulla cambia nel Paese che viviamo, è come se ci trovassimo di fronte ad un solo giorno, in cui un solo e unico insieme di eventi immutabili si svolge". Questo passo del romanzo è sempre stato nella mia mente durante i primi giorni della rivoluzione, perché ha molto da dire sul perché la rivoluzione era una necessità per il mio Paese. Sono contenta che hai notato che il mio libro ha cose in comune con la rivoluzione ed è sulla rivoluzione personale. Per quanto riguarda la libertà, che non fa male a tutti, abbiamo avuto un forte desiderio di libertà e ho ancora molta nostalgia di essa. La nostra rivoluzione è ancora incompiuta perché lo SCAF (il consiglio supremo delle forze armate) sta cercando di uccidere l'anima della rivoluzione e cercando di riprodurre il regime di Mubarak con un nuovo look.

I regimi fanno paura, ma ora, dopo aver scritto una delle pagine più importanti della storia dell'Egitto, qual è la paura più intima che vi portate dentro?

R.: la rivoluzione ha dimostrato che questo regime brutale,non fa paura come si pensava prima. Il regime era codardo e fragile dentro. La rivoluzione ha aiutato gli egiziani ad affrontare tutti i demoni della paura, frustrazione e disperazione. Il sentimento più intimo che ho adesso è la speranza.

Per cosa hai dovuto lottare nella tua vita?

R.: Ho dovuto combattere per tutto quello che ho ora. Ho lottato per vivere in modo indipendente, ho lasciato il mio paese quando avevo appena 18 anni, per andare a vivere da solo al Cairo. Ho lottato per rimanere al Cairo, dopo aver completato i miei studi presso l'università, per vivere come voglio. Ma per riassumere tutti questi passaggi è stata una lotta per una maggiore libertà, una lotta per la persona che sono veramente.


Ma cosa è davvero cambiato nella vostra vita quotidiana dopo la caduta di Mubarak?

R.: È troppo presto per capire cosa è cambiato in materia di diritti sociali e di diritti delle donne in particolare, perché la rivoluzione non è ancora completata. All'interno di questi ultimi mesi, abbiamo scoperto che il regime di Mubarak non è completamente crollato. Lo SCAF sembra che fingesse di essere con la rivoluzione solo per ucciderlo. Le donne hanno svolto un grande ruolo nella rivoluzione, ma lo SCAF, il ministro Essam Sharaf, e gli islamisti radicali hanno ignorato questo ruolo.

Lei si definisce non credente, ma la religione è davvero incompatibile con qualsiasi forma di democrazia?

R.: La parola laica è più precisa nel mio caso, io non sono un atea. Credo che il problema non sia nella religione in se, piuttosto il problema si trova in alcune interpretazioni della religione. Credo che le considerazioni religiose debbano essere escluse dalla politica o dagli affari civili.

Quali autori e scrittori hanno influenzato la sua formazione?

R.: Direi Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, William Faulkner, e, naturalmente, Fëdor Dostoevskij.

Se potesse dare un premio Nobel per la letteratura a chi lo assegnerebbe?

R.: Se mi fosse stata fatta la stessa domanda 4 anni fa avrei scelto il poeta palestinese Mahmoud Darwish, morto nel 2008. Ma per ora, credo che Paul Auster meriti il premio.


Parafrasando Martin Luther King "You have a dream"?

R.: Ho un sogno sì, vedere l'Egitto diventare un Paese democratico moderno.


Manuela Caserta

giovedì 22 settembre 2011

Fulvio Abbate: «Rimane il fatto che Pasolini possiamo mettercelo in camera come poster, mentre il poster di Sciascia in camera io non me lo metterei»

Una lunga intervista all’autore di Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi, edito da Dalai editore. Un’intervista che va oltre il libro scritto da Fulvio Abbate, dove sono raccolti frammenti di storia di un tempo e di un’Italia di cui rimane solo un eco lontano. Un libro dove vi sono anche testimonianze del pensiero di Pasolini uomo e scrittore, raccontate attraverso il vissuto di chi ha avuto la fortuna e l’opportunità di conoscere e frequentare il poeta confidenzialmente, come l’amica e giornalista Adele Cambria.

Pasolini rimane uno degli scrittori più citati, un modello di riferimento, un baluardo di verità ancora unico, e la forza del pensiero pasoliniano va ravvisata non solo nel vuoto dei tempi che viviamo, ma anche nel suo coraggio, quello di andare sempre e comunque contro il conformismo che spegne lo spirito critico.

Da C’era una volta P.P.Pasolini a P.P.Pasolini raccontato ai ragazzi cos’è cambiato?

R.: Intanto sono passati sei anni, ed è sempre più aumentato l’appiattimento del tema Pasolini, riferito unicamente alla questione criminale, al delitto. E chi dovrebbe diciamo rivendicare l’antagonismo pasoliniano, la sinistra, penso a Veltroni che addirittura ha proposto la riapertura del processo, invece si è sempre più appiattita su un conformismo di grado zero. Ecco questo è accaduto.

A proposito dei problemi della sinistra, nel suo libro mette Veltroni al centro di tutti questi problemi, perché?

R.: Sì lo metto al centro dei problemi, per due motivi, intanto perché Veltroni è uno degli interlocutori privilegiati fra i giovani ragazzi scelti da Pasolini negli anni 70, poco prima della sua morte. C’è una foto scattata in pieno centro a Roma, dove Pasolini guarda Veltroni, dietro i suoi occhiali RayBan con il parasudore, e sembra dire: «ma questo che pesce è?». Il secondo motivo è che c’è una centralità romana, una centralità di un certo establishment culturale conformista di sinistra romano, e nessuno come Veltroni, dopo il Pci di Togliatti, si è posto un problema di egemonia culturale a sinistra. Con la differenza che questa, per Togliatti coincideva diciamo con la conquista delle università, con Veltroni coincide con la conquista del consiglio di amministrazione della Rai. O se non la conquista, almeno attraverso un controllo parziale di esso, non a caso l’ultimo suo atto politico prima di lasciare la segreteria del PD, è stato piazzare un suo uomo di fiducia, tale Van Straten, sedicente scrittore nel cda della Rai.

“Sedicente”?

R.: Sì sedicente, perché uno scrittore vero non va a fare il burocrate pagato in viale Mazzini. Piuttosto, come diceva Pasolini, accetta di essere la contestazione vivente, e non vive nell’orgoglio di avere l’auto blu con l’autista.

La prefazione di Niki Vendola e l’atto d’accusa lanciato a Veltroni sembrerebbero fare il paio con una presa di posizione politica però, invece?

No può sembrare sia così, invece no. Innanzitutto la presenza della prefazione di Niki Vendola dipende da due cose: Vendola è stato uno dei primi recensori su Rinascita, del mio primo romanzo, Zero maggio a Palermo, pubblicato nel ’90, gli anni in cui faceva il giornalista. Poi Vendola è l’unico politico, che si sia mai laureato, che noi si sappia, con una tesi su Pasolini poeta, questa è l’unica ragione. Quindi non c’è nessuna adesione da parte mia di posizione politica rispetto a che ne so, a Sinistra Ecologia e Libertà.

Il solito vizio della sinistra è quello di cercare sempre un capro espiatorio a tutti i propri mali, ma per il resto, da dove si ricomincia?

R.: la sinistra oggi non esiste più, esiste solo la flora batterica bruciata della sinistra. E Veltroni non è solo in quest’opera di smantellamento, D’Alema accanto a lui, con la differenza che a D’Alema interessa la finanza e ha un rapporto meno invasivo rispetto alla gestione della cultura. È tutta lì la differenza, è inutile che noi si parli ancora di sinistra, perché la sinistra non c’è più in questo Paese.

E quindi Di Pietro cos’è?

R.: No, Di Pietro è un altro soggetto, Di Pietro è un ircocervo che mette insieme elementi di giustizialismo, e qui dovremmo spiegare cosa significa esattamente giustizialismo, che è un termine che viene dall’Argentina con Peron. Poi, elementi di populismo giustizialista da una parte, e dall’altra pezzi di una sinistra delusa oppure alla deriva, che hanno visto per un attimo in Tonino una specie di sopravvissuto, com’era già accaduto vent’anni fa con la Rete di Leoluca Orlando. Però non è che la falce e martello e i suoi derivati successivi, possano mai più pensare di avere un loro controllo sull’elettorato, è finito quel tempo. Io non mi considero più di sinistra, mi rifiuto di definirmi di sinistra perché in nome della comune appartenenza si tende a chiederti una delega in bianco. E io da una parte mi rifiuto di consegnare la mia delega e dall’altra credo che, da scrittore e artista quale sono, di avere appunto come diceva Pasolini, il dovere di essere sempre e comunque opposizione.

Secondo lei il popolo di sinistra è sempre appeso alla speranza che arrivi un leader?

R.: Bè pochi giorni fa è bastato che si pensasse che Manuela Arcuri non aveva ceduto alle lusinghe del premier perché diventasse un’eroina della sinistra. Dopo sono uscite le intercettazioni dove si è capito che invece, in cambio di un ruolo per il fratello in una fiction, avrebbe potuto cedervi e si è passati alla delusione. Se adesso arrivasse un canguro sarebbe lo stesso…

Quindi si continua a vivere di sepolcri, di miti insuperabili ?

R.: la sinistra italiana non conosce la laicità, viene in larga parte dal partito comunista che aveva un atteggiamento fideistico nei confronti dei suoi leader e dei suoi dirigenti come Togliatti e Berlinguer. Ancora adesso viene pronunciato il nome di Berlinguer, intanto è morto questo Berlinguer, e poi è stato un signore che ha collezionato ogni sorta di sconfitta politica nella sua vita, era onesto sì, ma la virtù, dicevano gli antichi, è premio a se stessa.

Lei ha scritto Zero maggio a Palermo, e proprio recentemente dalle pagine di Repubblica –Palermo lo scrittore Alajmo, ha sentenziosamente sostenuto che nessuno fra tutti i famosi romanzieri siciliani fin’ora esistiti, sia mai stato in grado di scrivere il cosiddetto “romanzo di Palermo” per definizione. Cosa ne pensa?

R.: Il mio libro era un libro che da una parte aveva proprio la pretesa di essere il “romanzo di Palermo” ma dall’altra raccontava in fondo il mondo della passione politica, raccontando l’affabulazione diciamo di quel mondo, del mondo del comunismo. Quindi un libro bifronte, che non può avere la pretesa di essere il romanzo di Palermo. Ad oggi non credo ci sia, ma prima o poi arriverà, prima o poi qualcuno lo scriverà, ma non c’è un modo di scrivervi sopra. Palermo è un genere così come la Banda della Magliana è diventato un genere, i film denuncia sulla mafia degli anni 70-80 mostravano in modo chiaro netto quella realtà, quelli che vengono fatti adesso sono puro genere dove Palermo è solo un fondale di carta, questa è la mia sensazione.

Perché ha sentito l’esigenza di raccontare Pasolini ai ragazzi?

R.: Per il coraggio. Pasolini per alcuni era un frocio che è stato ammazzato, e quindi il mistero è da “Chi l’ha visto”. Per altri ancora era un regista che ha fatto Salò, per altri ancora era l’autore degli Scritti Corsari, e di «io so il nome dei responsabili». Mentre la cosa più significativa di lui è stato il coraggio. È stato a mio parere anche un grande narratore, Una vita violenta è un romanzo bellissimo a leggerlo ancora adesso, ha scritto dei versi straordinari che potrebbero essere venduti anche in forma di cartolina, per raccontare il passaggio dall’Italia post-bellica contadina all’Italia contemporanea.

Ha detto quello che stava per accadere alla società italiana, cosa pretendiamo più di questo? Ditemi una sola parola che ha detto Leonardo Sciascia di cui abbiamo memoria, «professionisti dell’antimafia» questo ci ricordiamo di lui. Rimane il fatto che Pasolini possiamo mettercelo in camera come poster, mentre il poster di Sciascia in camera io non me lo metterei.

Manuela Caserta

mercoledì 14 settembre 2011

Terraferma di Emanuele Crialese: non è retorica non è poesia. È la ruvida bellezza dei fatti.

Si è vero che la Mostra internazionale del cinema di Venezia soffre di esterofilia. È quasi un dovere oramai dopo 68 edizioni, non smentirsi neppure una volta. E dunque a Terraferma di Emanuele Crialese è andato solo il Premio speciale della giura della Mostra del cinema più importante in Italia.
Va riconosciuta e sottolineata la bravura, su un ruolo ritagliato perfettamente sul soggetto, di Filippo Pucillo, giovane attore lampedusano che ancora bambino, prese parte ad un altro significativo film di Crialese, Respiro. Seconda opera cinematografica del regista, che ha esordito in terra straniera a New York, con il film Once we were strangers, primo film italiano ammesso al Sundance Film Festival di Robert Redford.

Tralasciando il curriculum vitae di Crialese, cosa mi ha conquistata intanto? La fotografia in primis, bellissima, intensa, realistica e tridimensionale. Il film si apre su un fondale blu, che già proietta l’immaginazione oltre, rapiscono i colori forti, naturali veri dell’isola (di Linosa) dove il film è stato girato. La sabbia nera, vulcanica, la terra arida, un’isola che è uno sputo in mezzo al mediterraneo. Eppure le immagini ti fanno sentire dietro quell’occhio fotografico, sei tu che rubi le immagini (fotografia di Fabio Cianchetti) e vai incontro ai personaggi, quasi ci parli muta, come una che ha da ascoltare una storia. I dialoghi sono prevalentemente in siculo isolano, forti, cantilenanti e mimati, c’è tutta la fisicità espressiva del sud. Filippo Pucillo nella parte dell’adolescente che impara a pescare con il nonno paterno, è intenso e puro, ha tutta la bellezza del ribelle selvaggio che conserva l’incanto. Quasi un piccolo e drammatico Gennarino Carunchio. I dialoghi passano in secondo piano, tutto il film ruota intorno alle loro facce, ai loro visi bruciati dal sole e solcati dal mare. Non tacciate il film di sentimentalismo, sarebbe un atto d’invidia gratuito. Le emozioni filtrano e si fermano come un nodo in gola sì, ma il film è una fotografia reale e cruda dei fatti accaduti. Tutto il resto, la poesia, la luce, i pescatori che si ribellano all’ingiustizia legale invocando il codice del mare è storia di umanità, di regole da marinai. Il mare non perdona se abbandoni un uomo in mare, e questo i pescatori lo sanno, lo rispettano, è una questione d’onore. La bellezza ruvida dell’isola è quasi imperdonabile, eppure è bellezza che tace sulla storia.

Fa riflettere questo film, fa riflettere sulla tragedia degli sbarchi, dei profughi sulle carrette del mare, della legge che vieta ai pescatori in mare, che avvistano una carretta di non avvicinarsi, di non caricare nessuno,di lasciare in mare fino all’arrivo della capitaneria i disperati. C’è una scena fortissima nel film, che esprime il senso e la portata del dramma. Filippo, il giovane adolescente, ruba un gozzo con la lampara di notte, e porta a fare un bagno al buio un’amica milanese in vacanza. I due si fermano in angolo di mare meraviglioso, accendono la lampara e il mare rivela la sua bellezza, viene voglia di tuffarsi in quel blu. Ma mentre lei fa il bagno, Filippo sente dei rumori, sposta la lampara verso il largo e il mare nero brulica di disperati che cercano voracemente di raggiungere a nuoto l’imbarcazione. Filippo si fa prendere dal panico, sa che non può farlo non può salvarli, ha rubato il gozzo, è solo con una ragazza, vigliaccamente cerca di fuggire, allontana i disperati che si attaccano al gozzo quasi capovolgendolo. Lui si agita li bastona, la scena è cruda, forte, c’è disperazione, sensi di colpa, e tutta la vigliaccheria impotente di un ragazzino che per non commettere un reato si ritrova il giorno dopo, con una coscienza da affogare per timore di aver commesso un delitto, tradendo la legge del mare.

Donatella Finocchiaro è brava come sempre, interpreta la voglia di fuggire con la malinconia negli occhi. Il nonno Ernesto (Mimmo Cuticchio) è la quercia cresciuta su quello scoglio, non ha radici sulla terra ferma e non ne vuole. Beppe Fiorello, è il cinico piccolo imprenditore locale, fa divertire i turisti, e interpreta il nuovo che avanza, la generazione che scavalca la tradizione, l’omologazione in pieno stile tammarreide.
È uno di quei film che andrebbe proiettato nelle scuole, che trova la sua bellezza nel ruvida verità, non ci sono cifre stilistiche da decantare. Semplicemente ci sono cose che neppure un Tg ha il coraggio di spiegarti come fa il cinema.
Ps: soffermatevi a leggere i titoli di coda, perché un film è fatto anche dell’opera dei tanti piccoli artigiani e artisti da backstage. Ma soprattutto la colonna sonora finale vi cullerà nel farlo.

Manuela Caserta

sabato 10 settembre 2011

Non parlate al conducente. Segnali urbani di poesia...

Incontro Massimiliano Coccia, giovane scrittore e autore teatrale, in un bar del centro di Roma la sua città, e la mia per adozione. Ma lui su Roma e la periferia, ci ha fatto un corto dal titolo Roma, un giorno diretto da Matteo Botrugno, un corto di qualche anno fa che ti lascia il sapore di una Roma “pasoliniana” attraversata da una luce che illumina di bello anche la periferia più abbandonata. Così giovane e così pieno di cose già scritte e pubblicate: sei libri, tre docufilm, un corto, due piecè teatrali, già diversi premi vinti e una casa editrice appena nata. Il suo libro d’esordio è stato Gli occhi di Piero. Storia di Piero Bruno, un ragazzo degli anni 70, l’ultima sua fatica letteraria si intitola Non parlate al conducente (edito Giulio Perrone), una raccolta di poesie impregnate di quotidianità metropolitana, di attimi fuggenti immortalati come una fotografia in versi. Incontri e scontri di sguardi e riflessioni sulla decadenza di un Paese che di poesia ne avrebbe davvero tanto bisogno.

Non parlate al conducente un libro che è una raccolta di poesie. Com’è nato?
R.: Il libro è uscito ad aprile per la Giulio Perrone Editore ed è nato in maniera istintiva, perché per me la poesia è il bozzetto di qualsiasi €composizione. Prima di scrivere un racconto, una sceneggiatura, un riadattamento teatrale, comincio sempre da una poesia.

Un po’ sentimentalista?
R: No secondo me ognuno di noi ha una forma letteraria nella quale si sente inevitabilmente libero, la mia è quella. Con il fatto che è il genere meno letto, il meno commerciale che c’è, non hai delle necessita di sorta, nel senso, non hai degli obblighi. Mentre il racconto poi lo devi sottoporre a delle rivisitazioni a delle riletture, quindi poi diventa un lavoro collettivo perché ci lavori con l’editor, con la casa editrice, un romanzo è comunque un’operazione collettiva.

La licenza poetica ti elimina l’incubo dell’editor quindi?
R: Bé più che altro perché è un genere comunque lasciato a se stesso, questo purtroppo lo dequalifica perché in realtà la poesia nella storia della letteratura italiana è alla base di quello che siamo linguisticamente, di quello che comunque abbiamo composto.

Ma quanto spazio c’è per la poesia nella nostra società e nell’attuale panorama editoriale e culturale?
R.: Poco spazio, gli editori che investono e non si fanno pagare per pubblicare la poesia sono pochi. Se pensi che al di là delle piccole case editrici, c’è Perrone, i Libri Bianchi di Einaudi, mentre Feltrinelli fa quasi solo le antologiche. Sono sempre l’1% di tutta la produzione, se noi parliamo in termini di stampa delle copie è ancora di meno, cioè si presume che sia veramente un prodotto intimo. Ma questa cosa purtroppo dipende principalmente dal fatto che l’editoria a pagamento uccide tutto questo. Poi se pensi che Bondi fa poesie…
Alla fine mancando la critica letteraria intesa come un tempo era, manca spesso la selezione della qualità. Prediligere la quantità in poesia significa proprio andare contro la poesia stessa.

Gli occhi di Piero. Storia di Piero Bruno, un ragazzo degli anni 70 ha segnato il tuo esordio letterario. Ma cosa è cambiato da allora a oggi nella tua vita da scrittore, quanto è difficile vivere di scrittura?
R: É comunque sempre una lotta, che alla fine della giornata ti fa più felice, ma comunque una lotta molto dura perché quando ho cominciato a scrivere libri anche il panorama era ancora un po’ differente, c’era già cinque o sei anni fa, l’idea che di questo mestiere puramente ci si potesse vivere. Col tempo invece capisci che non è così. La grande lotta è comunque trovare delle cose che non ti allontanano da quello che per me è la mia vocazione, il mio motivo di vita fondamentalmente. Dal 2008 ad oggi è cambiato anche il mondo del giornalismo, è tutto diventato più precario, meno strutturato e qualitativo, tutto è lasciato all’improvvisazione. Una cosa che ci vogliono far credere è che per fare questo tipo di lavoro non occorra soffrire, non occorra patire, molti ti danno sempre l’idea che un autore si sia svegliato la mattina e sia stato pubblicato. Molte cose creano l’illusione di un successo letterario effimero, e invece no, dietro ci sta spesso tanta tanta gavetta.

Cosa ne pensi dei premi letterari come lo Strega ad esempio.
R: Io penso che ogni libro è rispettabile perché rappresenta qualcosa di grande che l’autore esprime, sia se la critica lo ritiene mediocre o no, però penso che sono anni, credo forse da quando ha vinto Ammaniti, che manca il libro del premio Strega, cioè il libro che è destinato a rimanere. Il premio Strega comunque, come tanti altri premi letterari è un po’ la cartina tornasole di questo Paese, spesso la cooptazione che tu hai in Parlamento ce l’hai sui premi letterari.

Cosa ne pensi dei corsi di scrittura creativa?
R: I corsi di scrittura creativa intanto sono utili per una cosa, perché insegnano alle persone a scrivere, io ho visto persone che miglioravano la propria grammatica italiana, e se questo migliora il livello culturale del Paese bene venga. Poi è chiaro, non può essere il metodo per diventare scrittori.

Nei tuoi progetti c’è anche fare l’editore, hai appena creato la casa editrice Ensemble
R: Io e Matteo Chiavarone, che è un autore, un poeta e un giornalista culturale, ci siamo detti che magari era bello creare qualcosa in cui ci fosse attenzione a tanti aspetti legati all’editoria. Aspetti legati alla distribuzione, al fatto che un autore non venisse lasciato solo, al fatto che saltasse il vincolo odioso dell’editoria a pagamento, che ci fosse un criterio meritocratico nella scelta. Riflettendo su tutti questi aspetti ci siamo detti proviamo a farlo noi.

Cosa manca culturalmente in una città come Roma secondo te?
R: Roma, come diceva Andy Warhol, “è l’esempio di cosa succede quando i monumenti durano troppo”. E Roma è questo, di fatto è una metropoli che non è cresciuta in questi anni. L’idea di città costruita dal modello Alemanno è stata quella di chiuderla nella ZTL, riempirla di militari dell’esercito, blindarla e seminare l’idea della paura. Tutte cose che non comunicano alla cittadinanza un alfabeto di convivenza, se non la fai sentire parte integrante della metropoli in cui vive, del suo quartiere del luogo in cui risiede, è normale che il cittadino non ha più amore per la sua città.

Manuela Caserta

mercoledì 7 settembre 2011

Questione di esercizio...

Una pagina bianca e un prurito sulla punta delle dita che mi incita a lasciar scorrere le mani sui tasti di questo pianoforte.
“Scrivi scrivi!” suggerisce una vocina da dentro. Non puoi fermarti, le idee e la creatività albergano lì dove trovano la foce alla quale approdare. Può darsi, mi ripeto fra me e me. C’è un film che mi ritorna sempre in mente in questi casi, si intitola “Questioni di cuore” di Francesca Archibugi.
I protagonisti sono Kim Rossi Stuart, bello come sempre, proletario, pragmatico e vera anima letteraria dell’intero film, e Antonio Albanese sceneggiatore con il blocco dello scrittore. I due si incontrano nella sala rianimazione di un ospedale, e lì diventeranno amici, due mondi diversi che si aggrappano l’uno all’altro. Alberto (Antonio Albanaese), non riesce più a scrivere, schiacciato da una crisi di creatività, in preda all’ansia da prestazione, all’affitto da pagare, sfugge alle incalzanti telefonate del produttore, e fugge in modo orgogliosamente distruttivo dall’abbraccio della sua compagna (Francesca Inaudi), bravissima, che nel film fa l’attrice.

È insostenibile per lui quell’atavica responsabilità di non sapersi mai abbandonare ai propri “fallimenti”, di fronte ad una donna poi no, mai. Così si fa lasciare da lei, la allontana e da solo comincia la traversata nel deserto delle idee.
Alberto, apre la porta di casa come se aprisse quella di un altro mondo. Un mondo non suo, che affaccia sulla periferia della vita, dove non si ha il privilegio di vivere scrivendo (ammesso che esista davvero). E non si hanno sogni da regalare alla gente, scrivendo un film. Anzi. In questo mondo, non si ha tempo di sognare. Eppure in mezzo a lamiere di auto d’epoca da restaurare, con le mani sporche di grasso e fatica Angelo, lo rimetterà al mondo. C’è un gioco divertente che nel film, Alberto, insegna al figlio di Angelo, un gioco che io faccio spesso da sola, e che scommetto piace fare a chiunque piaccia osservare.

Questo gioco consiste nell’osservare le persone che ti passano davanti e immaginarne la vita, il lavoro, i difetti i vizi e i pensieri. Da come si muovono, da come gesticolano, dal loro sguardo, dalla camminata, dall’espressione che hanno in faccia. Se vi capita mai di stare comodamente seduti al tavolino di un bar nel centro della vostra città, a scaldarvi al sole, lasciando libero di vagare il vostro sguardo, uno scorcio di vita vi si parerà davanti, e ci ritroverete dentro il frame di un film, la pagina di un libro, un pensiero da annotare, una battuta, un sorriso un nome. Dalla periferia di una città, Alberto attraversa il suo deserto, ritrovandovi quelle cose della vita che aveva perso per strada. Ricominciando da un’amicizia vera, che gli lascia affetti da curare, vuoti da colmare e storie di cui scrivere. Un viaggio dentro se stesso, intenso e lento, che gli riapre la finestra dell’immaginazione. E quando la storia finisce drammaticamente, la scena finale si svolge di notte, la notte dello scrittore. Quelle lunghe notti insonni e calde, passate ad osservare fuori dalla finestra il Tevere, i passanti e le luci di Roma.
E dopo cosa succede? «Questa è la domanda, la risposta è la storia».