Pensiero del giorno

•‎In un momento della vita, al momento giusto, bisogna poter credere all'impossibile Christa T. - di Christa Wolf

domenica 5 febbraio 2012

La domanda è: are they really bastard?

Cominciamo dalla fine, anzi no, cominciamo da una domanda:are bastard? Forse sì. Ma non All Cops ovviamente. Eppure il film ha un freno inibitore che lo rende monco, e che si respira soprattutto nella seconda parte, come se il regista non avesse voluto affondare il piede sull’acceleratore, mancata audacia, pudore perbenista, o dovuto contenimento? Forse tutti e tre. Violento sì ma con cautela, e quel senso di rimorso che ogni tanto emerge nel Cobra (interpretato dal bravissimo PierFrancesco Favino), sembra volere indurti alla compassione. Contraddittorio, ma l’effetto è chiaramente voluto, subdolo è la nota di fondo che arriva alla fine dell’ultima staffa. Subdolo perché dentro c’è un bel pout pourri di temi sociali qualunquisti, di quelli buoni a scatenare le folle inferocite, una pasta di luoghi comuni spacciati per grandi verità sommesse.

Represse scintille di razzismo individuale che nascondiamo tra le nostre paure, e che prendono fuoco non appena l’ingiustizia mette piede a casa tua. A quel punto lo straniero è più straniero di prima, e scatta quel senso becero di prevaricazione capace di ammantarsi del più bieco nazionalismo che prende forma anche con un certo imperante orgoglio. E diventa un mantra, un coro, un’imposizione: “questa è casa nostra, questa è casa NOSTRA!”. Gli scontri con gli ultrà allo stadio, violenza contro violenza, l’uccisione del giovane ispettore Raciti che monta la rabbia, lo stupro della Reggiani commesso da un rumeno, un gruppo d’immigrati che bivacca in un parco, l’ingiustizia subita da un padre separato che non può vedere la figlia, gli eccessi che si dovrebbero pagare sul banco degli imputati ma che alla fine vengono sanati dall’autoassoluzione che lo Stato fa a se stesso. L’iniziazione del giovane celerino, che non comprende come il cameratismo sia una forma di eccitazione superba, un delirio collettivo di onnipotenza che non puoi rifiutare dal quale hai quasi il dovere di lasciarti sedurre per battesimo e fratellanza. Tutte fotografie di un Paese corrotto a sua insaputa, raggirato, vittima di se stesso dove si elude la legge, dove la legge elude la legge perché la rappresenta in carne ossa e distintivo e può farlo.

“Tu giochi alla guerra!” è l’insulto che arriva a un padre dal figlio ribelle e invasato dai finti ideali di un centro sociale di destra, è la verità sbattuta sul tavolo come un pezzo di carne cruda e sanguinante, e la risposta è ovviamente urlata a petto infuori, è la strada che ti costringe a farlo è il dovere, è quel mestiere di merda che ti fa portare a casa lo stipendio: “lo faccio anche per te!”. Solo che l’eroismo urlato, finisce affogato attonito e miserevolmente nudo nella mattanza punitiva, commessa in quel centro sociale dove il figlio sorprende il padre a giocare alla guerra, metafora di una Diaz dove di figli ce n’erano parecchi, dove l’onta insegue ancora il peccato ma il peccato, in chi si crede eroe e giustiziere è amnistia. A.c.a.b. fa leva sugli istinti più bassi e reconditi del proprio ego, emulazione, paura, la sottile seduzione della violenza e infine l’espiazione che non arriva, rimane chiusa lì, nel nome di una piazza che rievoca un delitto, ma non è sempre vero che in nomen omen, come non è sempre vero che legge fa il paio con giustizia.

E per finire una domanda: che fine ha fatto il finale?