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martedì 24 aprile 2012

Sulle orme del peggior Céline di Charles Dantzig


Sulle orme del peggior Céline, Charles Dantzig

Articolo pubblicato su LA LETTURA n°22, 15 aprile 2012, inserto culturale del Corriere della sera.



In Francia dilaga un volgare realismo populista. Il morboso Littell e i punti esclamativi di Hessel
di CHARLES DANTZIG

Sappiamo che la parola «popolo» è un’usurpazione di linguaggio. Il popolo comprende tutti, come nell’espressione «il popolo francese», o nessuno. In tempi di crisi, certi politici denominano lusinghevolmente «popolo» coloro che soffrono o temono di soffrire, o immaginano di soffrire. Il populismo dà una purezza fittizia a una parte fantasticata della popolazione. È l’astuzia dei furbi e la forza dei disperati. Tutti coloro che fanno fatica, a vivere o a farsi eleggere, tendono ad allinearvisi per giustificare le sconfitte. E se mirano alla vittoria, è solo per esercitare la vendetta.
È questa idea ipocrita, poiché ricusa la parola che la definisce, a far sbandare le democrazie. In letteratura, il populismo va e viene. Nel 2012, si chiama realismo. Si è installato con la potenza di un aereo in volo l’11 settembre 2001: talvolta la storia è abbastanza gentile da segnalare con precisione il momento fatale. Da quel momento, la brutalità piomba nelle arti (nei fatti, essa è eterna).
Si è imposta molto presto. Il film di Quentin Tarantino Bastardi senza gloria (2009) l’ha estetizzata con allegra stupidità. Il libro Le benevole di Jonathan Littell (2006), scritto così male che non lo si può dire morboso —ci sono del resto meno libri morbosi che pubblico morboso —, era stato un sintomo, un dispositivo che aveva scatenato qualcosa che ha fatto saltare la diga. Dopo questo romanzo, i voyeur, gli osceni, gli utilitaristi, i maschilisti, insomma il contrario della letteratura, si son precipitati sul libro, dando un cattivo esempio di quello che si poteva vendere, e che poteva poi essere imitato. Fino a quel momento, avevano avuto a disposizione solo opere non letterarie e quindi senza conseguenze, come i ricordi di ex legionari dell’Algeria e cose del genere.
La brutalità è improvvisamente marchiata come «letteratura». La si può ammirare! Non era successo dai tempi di Louis-Ferdinand Céline. Cosa accadrà del monumento alla brutalità che sono i suoi pamphlet, quando la vedova non ci sarà più? Quest’ultima ne vieta la riedizione, come lo stesso Céline aveva fatto. Son pronto a scommettere che, con il pretesto del valore documentario, della storia letteraria, della testimonianza storica e altre ipocrisie, saranno di nuovo pubblicati, e si tratterà soprattutto di un’operazione commerciale. Beninteso, verrà ripetuta la frase di un libellista degli anni Sessanta: «Pubblicherò il mio peggior nemico se sono sicuro che ha talento». In parole non menzognere, si dice: «Pubblicherò il mio peggior nemico se sono sicuro che le sue opere mi frutteranno». E quando saranno state vendute 200 mila disgustose copie di La bella rogna si tenterà di far finta di niente. Se possibile. I bruti resi gloriosi dall’estetizzazione non si fermano così presto.
La crisi in cui viviamo sollecita domande. Gli ingenui, spinti dagli astuti, le pongono alla letteratura.
Come se fosse la Corte dei Conti. Ai primi, questo serve a tranquillizzarsi, ai secondi ad assoggettare quella folle letteratura che trova sempre il modo di sfuggire al dovere. La clientela di un certo tipo reclama il reale. Che le viene fornito. Tutto sommato, funziona. Asserviamo dunque la fiction al reportage, la forma alla narrazione, l’inutile al morale. Ritengo l’inutilità della letteratura come una sua superiorità: vedi per esempio l’inutilità delle sculture di Brancusi o delle cantate di Scarlatti.
Il realismo mi sembra un’illusione. Esiste, non lo contesto, ed è sempre esistito, ma in un certo tipo di letteratura, utilitaristica, sostituibile e sostituita. Questa forma di fiction, lamentosa e al tempo stesso minacciosa, generalmente fa felici i suoi autori. Ed ecco che ai giorni nostri ci sono romanzieri americani che danno pagine di interviste per parlare non del modo in cui si scrive un libro, ma del destino delle classi medie; ci sono pesanti romanzi francesi il cui stile, ci vogliono far credere, si accorda con il soggetto: il fatto è che gli autori non sono riusciti a fare qualcosa di meglio e chi li protegge teorizza la loro incapacità. Allo stesso modo, quando esprimono opinioni volgari, c’è chi va in soccorso degli autori dicendo che volgari sono i loro personaggi. Se si aiutano tanto i realisti è perché il loro soggetto è immediatamente comprensibile, comunemente accessibile. E la forma, che è la letteratura stessa, perisca pure! Guai a chi infastidisce i realisti! So bene che con questo articolo avrò ancora i gentili amatori di Céline contro di me. Bisogna tuttavia dire che il realismo non è per niente favorevole alle «classi medie», che finge di descrivere. Anzi ledisprezza. Il realismo è un ricatto. Certi scrittori, che hanno un reale diverso dal vostro e dal mio, decidono che il loro è l’unico, e che tutti vi si devono sottomettere. Il reale fluttua secondo la potenza politica di tale o talaltro partito. Negli anni Cinquanta, con la letteratura del «realismo socialista». Negli anni Novanta, direi che il reale è passato alla reazione. I reazionari degli anni Novanta hanno inventato un fantasma: il «politicamente corretto». Ci vuole abilità nel crearsi un avversario fittizio! Lo si può attaccare all’infinito gridando che non viene mai abbattuto. Tutti coloro che erano stati sopraffatti dalla liberazione dei costumi —in effetti era qui il punto segreto della loro rabbia — hanno impiegato del tempo a organizzarsi e a far risentire la propriavoce. Si sono fatti avanti lottando, insinuando, sistemando la gente nei media. E come se alla fine non avessero avuto la meglio, come se non avessero posti e bestseller, come se non fossero loro a fissare gli argomenti di dibattito, continuano a dirsi minoritari e insolenti. Il maestro Céline ha insegnato loro la tattica del gridare alla persecuzione quando si è in pieno trionfo e, soprattutto, quando si sogna di perseguitare gli altri. Sapevamo, fin dai loro antenati della fine del XIX secolo, che il realismo non crede all’esistenza del gratuito e del luminoso. È mosso da un amore subdolo del male. Del resto, non c’è bisogno di presupposti morali per creare il populismo in letteratura. Una estetica populista che non dica cose populiste si manifesta con uno stile pesante, contorto, deprimente. E diffonde le sue scempiaggini con maggior sicurezza degli stili scandalosi, che provocano pur sempre reazioni. Il realismo simpatico non è meno nefasto del realismo perverso. È impressionante come la lista delle migliori vendite di saggi della rivista «Livres Hebdo» sia infettata da punti esclamativi. È il segno di punteggiatura dei populisti. Stéphane Hessel, che potrebbe essere un falso cortese e un vero caporale, è l’autore di Indignatevi!. Impartendoci un ordine, è da un anno in cima alle classifiche di vendita. Il suo titolo con ingiunzione è imitato da: Jacques Attali, Candidats, répondez!; Christine Levicki, J’arrête de râler!; Julien Lepers, Les fautes de français? Plus jamais!; Marcel Rufo, Tiens bon!. Naturalmente, quando si esamina il senso dei titoli, il populismo è confermato. Quel pazzo di Péguy sapeva almeno una cosa: che le frasi
esclamative non hanno necessariamente bisogno del punto esclamativo. Restano ugualmente imponenti e perdono in repulsione. Questi «strumentalizzatori» della letteratura non scrivono, sono come i predicatori di Hyde Park che sbraitano arrampicati su uno sgabello. Il realismo è anche terrorismo. Se non gli ubbidite, insinua che voi siete un frivolo, un indifferente, un inutile, un parassita. Forza suppletiva di una politica equivoca, l’estetica della brutalità svanirà quando questa politica avrà fatto passi indietro. L’abbiamo visto mille volte, i grandi maschi che danno ordini sono imitatori di padroni.


giovedì 12 aprile 2012

Piazza Fontana:Una finestra sulla strage diventata un romanzo

Una lunga notte insonne, comincia così la descrizione di quella notte in Una finestra sulla strage, il libro scritto da Camilla Cederna sulla strage di Piazza Fontana. Una lunga notte insonne quella che segue i funerali delle vittime della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, interrotta da una telefonata fatta da due colleghi giornalisti:Gianpaolo Pansa e Corrado Stajano che passano a prenderla nel cuore della notte, dopo aver appreso quello che era avvenuto in questura. Ad una strage si aggiunge una tragedia: «un uomo si è buttato dalla finestra della questura, non farci aspettare, andiamo a dare un’occhiata» sono le parole scioccanti di quella telefonata.

Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana è tratto dal libro di Paolo Cucchiarelli, ma io qui ho volutamente avanzato il confronto con Una finestra sulla strage di Camilla Cederna, che all'epoca dei fatti fu tra i primi giornalisti che seguirono da vicino l'intera vicenda. Nel film di Giordana, Camilla Cederna ha il volto dell’attrice Benedetta Buccellato, che insieme agli altri colleghi (e nei fatti storici) insieme a Renata Bottarelli dell’Unità e Giampiero Testa del Giorno, vengono “gentilmente” ricevuti in questura, poco dopo la tragedia, dal questore Guida, dal capo dell’ufficio politico Antonino Allegra e dal commissario Calabresi, in un’atmosfera surreale e patinata che la Cederna descrive sgomenta raccontando che sembrava «un salotto in cui mancava appena che venisse offerto un bicchiere di whisky». Questa stessa scena nel film si svolge davanti a un commissario Calabresi che tenta di mantenere il suo storico aplomb da maglioncino a collo alto e completo giacca e pantalone, che lo contraddistinguevano dalle solite cravatte strozzate dei colleghi. Nel suo ufficio qualche ora prima, un uomo era misteriosamente volato giù dalla finestra, Calabresi, in quel tragico frangente non c’era, questa è la versione che sposa anche il regista Marco Tullio Giordana. I giornalisti chiedono “perché non avete informato immediatamente i familiari?” e il Calabresi di Giordana risponde istituzionalmente con un tono pacato appena in imbarazzo, come fosse Homer Simpson che dice: “Siamo stati impegnati”. La risposta che nei fatti realmente accaduti, Calabresi dette alla vedova Licia Pinelli che chiamò in questura per chiedere perché non l’avesse avvisata, fu: «Ma sa, signora…abbiamo molto da fare» da brividi. Il film ha una prima parte senza strumenti narrativi, una serie di singoli episodi fotografano in maniera didascalica gli avvenimenti storici dai quali si fa iniziare quella che fu definita la strategia della tensione.

L’anarchico Pinelli dopo la strage di piazza Fontana, fu trattenuto dall’algido commissario Calabresi per tre giorni in questura. Trattenuto in “stato di fermo di polizia prorogato dall’autorità” questa la risposta del questore Guida che la Cederna annota sul suo taccuino. La linea dura che le istituzioni decisero di adottare nell’immediatezza dei fatti di quel 12 dicembre 1969 fu quella di cercare i colpevoli ad ogni costo, anche a costo d’inventarseli. Scatta la rappresaglia, cresce il panico, la situazione è incontrollabile, le autorità sono disorientate dalla crescente e imprevedibile violenza degli attacchi terroristici e cominciano a mostrare i muscoli. Pinelli era un esponente anarchico del circolo della Ghisolfa, che Calabresi tampinava alla ricerca di una pista sulle frange più violente. GianGiacomo Feltrinelli era uno dei suoi chiodi fissi, e nel film appare in una scena dove fa la parte del guerrafondaio in un’assemblea all’università, Feltrinelli è una citazione che fa eco, ma nella narrazione del film non trova connotazione. Quando i giornalisti arrivano in ospedale, il medico di turno Nazzareno Fiorenzano dà notizia alla Cederna dello stato di salute dell’uomo che è stato accompagnato al pronto soccorso da un’imponente scorta della questura. “Niente più attività cardiaca apprezzabile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto ma non c’è niente da fare, durerà poco”. Un attimo dopo chiede alla giornalista chi fosse quest’uomo, dato che la polizia non aveva dato alcuna risposta alla sua domanda, e la Cederna rispose «È un anarchico si chiama Giuseppe Pinelli».

Romanzo di una strage prende piega dopo le immagini su Piazza Fontana, ma non riesce ad amplificare la forza implicita dei fatti storici, sembra l’autopsia di una tragedia, e i dialoghi a tratti hanno anche una notevole capacità sedativa inaspettata. Perché dipingere Moro sempre con quell’aurea da santone inconsapevole?! Gifuni ha l’aria dimessa dello statista rassegnato, un fiume di retorica, in mezzo ad altre figure istituzionali senza scrupoli, ciniche e cupe come quella di Saragat. Il Calabresi di Valerio Mastandrea, che si racconta esser stato un funzionario di polizia sopra le righe, un “intellettuale” ha il profilo basso della vittima preannunciata. Ma la gentilezza che lo faceva spiccare su gli altri, contraddiceva con il Calabresi che aveva preso parte anche a qualche significativa repressione contro dei manifestanti, che gli era valsa una denuncia per attentato ai diritti politici dei cittadini. Giordana racconta il lato “intellettuale” del giovane commissario, mettendo in scena i due protagonisti all’interno di una libreria, dove la conversazione fra i due nemici leali scivola negli stereotipi ideologici. Pinelli spiegando a Calabresi la matrice non violenta dell’anarchia, gli suggerisce un libro: l’Antologia di Spoon River, e Calabresi risponde prendendo in mano un libro sulla guerra fredda. Ma se davvero lo scontro sociale dell’epoca fosse stato solo culturale o essenzialmente tale, il sistema non avrebbe avuto bisogno di tutelare se stesso ad ogni costo. E Calabresi non avrebbe avuto bisogno di omettere una verità così come il film di Giordana ci riporta. L’Antologia di Spoon River secondo una lettera che circolava al tempo, Pinelli pare l’avesse spedito al compagno Paolo Faccioli detenuto in carcere per gli attentati del 25 aprile, proprio in quel funesto 12 dicembre. Quel livido sulla nuca di Pinelli , diventa uno dei punti controversi del dibattimento processuale, si ipotizza sia stato inferto con un colpo di karatè, ma la cosa venne liquidata in modo ben diverso. Suicidio o defenestrazione divenne questo il dilemma processuale nel quale si negò la costituzione di parte civile ai familiari. Il film si chiude sui titoli di coda che portano in rassegna l’excursus giuridico di condanne e assoluzioni in appello. Di quella che fu una strage di destra, si assume che fu quasi bipartisan, due bombe depositate col medesimo intento, una di destra e una di sinistra, la par condicio è una condizione ineluttabile per l’autoassoluzione storica di Stato. E si aggiunge una terza via, quella dei servizi segreti deviati che invisibilmente manovravano l’intero sistema di potere con un solo scopo. Ma davvero questa fu una strage fatta da “menti di destra e manovalanza di sinistra”? davvero la verità storica coincide con quella giudiziaria? Per la prima volta Marco Tullio Giordana mi lascia perplessa, e con la sensazione che non abbia voluto osare veramente, volendo più che avanzare dubbi puntellare una delle tante verità storiche.

E se vi dovesse sorgere ancora la domanda:chi è stato?La risposta paradossale all'esito giudiziario è:nessuno, è Stato.