Pensiero del giorno

•‎In un momento della vita, al momento giusto, bisogna poter credere all'impossibile Christa T. - di Christa Wolf

martedì 21 giugno 2011

When You're Strange. La leggenda di Jim Morrison

Dopo il Sundance festival del 2009, arriva anche in Italia il docu-film su Jim Morrison che ha vinto un grammy awards il 13 febbraio 2011, nella categoria Best Long Form Music video. When You're Strange debutterà nei cinema italiani oggi, mentre il canale Studio Universal lo trasmetterà sul digitale terrestre, con l'offerta Premium Gallery, il 3 luglio, esattamente a 40 anni di distanza dalla scomparsa del mito rock degli anni 60.

Ieri sera si è tenuta l'anteprima, presso la sala cinematografica The Space-Moderno di piazza della Repubblica a Roma. Durante la serata, il cantante Morgan ha tenuto un miniconcerto, suonando con la stessa chitarra che fu di Ray Manzarek, il celebre bassista dei Doors. Morgan è la voce narrante dell'edizione italiana di When You're Strange, ruolo che oltreoceano è stato ricoperto da Jhonny Deep. Del mito dei Doors, Morgan dice: «era una macchina sempre in moto, una vera stella, un grande fuoco che brucia dentro, ed è contagioso. Un limite oltre cui non si riesce a passare, in quei pochi anni hanno prodotto tanto, con forza, intelligenza e intensità mentre una persona normale ce ne metterebbe 60 di anni». Il docu-film che, è stato accolto con grande entusiasmo in numerosi festival internazionali, è ricco di materiale ufficiale reperito in rete, foto e interviste, ricostruito sapientemente in un collage, da cui emerge il ritratto dell'artista e dell'uomo.

La pellicola, incentrata principalmente sulla figura di Jim Morrison, racconta la vita intensa e dannata del cantante che, ancora giovanissimo, è stato il protagonista assoluto di un successo folgorante, finito poi drammaticamente in una vita spericolata. Il docu-film di Tom DiCillo, in fondo, non ci racconta molto di più, di quello che già youtube e twitter ci avevano fatto scoprire sui Doors e Jim Morrison. Il "poeta del sesso e della morte", come veniva definito, diventa l'assoluto protagonista, di tutta la visione che il regista ci riporta, sulla vita della celebre band. I suoi musicisti Manzarek, Krieger e Densmore, nella pellicola, pure fondamentali al successo dell'intera band, si stagliano sullo sfondo di una scena secondaria, rispetto alla vita dell'angelo dannato. I Doors esplodono negli anni 60, la band è formata da ex compagni d'università, che suonano musica pop, suonando pezzi strumentali molto lunghi, erano gli anni della ribellione e i Doors riflettevano completamente il mito edonista dionisiaco. Morrison, il ruolo da bello e dannato però, lo incarna totalmente, vivrà intensamente e fugacemente tutta la sua breve vita, fino a quando il vortice di alcool e droghe, dal quale non riesce a uscire lo stroncherà a soli 27 anni. Quando arrivò la telefonata della morte di Morrison, i suoi stessi musicisti, quasi non ci credevano.

Non era la prima volta che si spargeva una voce del genere e Ray Manzarek, il bassista più vicino alla star, pensò addirittura che si trattasse di una grande farsa inventata da Morrison, per sparire dalla scena in grande stile. Ricorderà questa teoria, anche nel suo libro Poet and Exile, pubblicato negli anni 90. Ma la morte di Morrison, vera o presunta, ne fece una leggenda stampata nell'immaginario collettivo. E anche se i Doors, dopo la scomparsa del “Re Lucertola” continuarono a sfornare musica, non fu più la stessa cosa.

Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online il 21 giugno 2011

venerdì 17 giugno 2011

IlBlogdiManu intervista a Lorenzo Calza

Lorenzo Calza, professione: scrittore, illustratore e sceneggiatore. È lo sceneggiatore di Julia, il fumetto noir pubblicato da Bonelli editore, e creatore di She, la lei più taggata di Facebook.

Il fumetto, da genere di lettura prevalentemente giovane a genere per adulti, anche se di nicchia. Una riscoperta?

R.:In realtà il fumetto sta vivendo, come tutti i media classici, una fase di regressione. Chiuso a tenaglia tra un passato glorioso, in cui se la giocava col cinema nel formare l'immaginario del Novecento, e un futuro ipertecnologico, ricco di sfide e pieno d'incognite. Su Amazon.com, in America, ormai si vendano più e-book che libri cartacei. In futuro ci saranno più alberi e meno case editrici, poco male. A Hitchock chiesero che fine avrebbero fatto gli autori, in un domani ipotetico in cui la gente si trovasse a indossare caschi-visori per vivere storie. Il Maestro rispose che quelle storie qualcuno doveva pur scriverle, metterle in scena. Oggi, i ragazzi sono pieni di stimoli - videogames, programmi che ti permettono di realizzare cose in prima persona. Cambia la fruizione culturale, sempre più partecipata, e questo sta cambiando il mondo. L'altro giorno assistevo a un concertino studentesco. I ragazzi sul palco erano straordinari, sia da punto di vista tecnico, che come spessore comunicativo. Questi, X-Factor, “Amici” e i vari imbuti del regime dei media, se li mangiano a colazione. Cambia l'antropologia dei giovani. Li stiamo tenendo compressi, non ne possono più e tra poco, per fortuna, ci spazzeranno via.


Julia è uno dei fumetti più letti nel panorama italiano. Un piccolo capolavoro di narrativa noir, dove c’è spazio per la criminologia, psicologia e…?

R.: Vita. Negli anni Settanta, Berardi portò il verismo nei fumetti western, con Ken Parker. Julia Kendall ne è figlia e io ne sono allievo. Quando scrivo Julia mi sento donna, professionista, piena d'inquietudini. Scrivo di criminali, e attraverso l'indagine leggo l'animo della gente, cerco le chiavi della società. Questa è la scuola del noir; parte da Dashiell Hammett e passa attraverso un pantheon di autori straordinari che mi sono dentro sempre, ogni giorno. La lezione principale è quella di calarsi così tanto nella materia da togliersi di scena. Sentire il delitto come un diaframma rotto nelle nostre relazioni umane, nelle nostre famiglie, nel capitalismo. Essere l'assassino, la vittima, il testimone. Quello che non ne sa niente, la bambina col gelato che ha sentito il rumore, e il meccanico dell'auto, entrare nel bar all'angolo. Essere tutti, fino in fondo. Il noir è terapeutico, una mimesi continua. L'ego lascia spazio a qualcosa di oltre, il mestiere l¹interpreto così. Pensate cosa significa per uno scrittore uomo, padre di famiglia, scrivere per ore dal punto di vista di una donna. Essere lei, fino in fondo.


La tua She, è diventata l'alter ego femminile del web. Bionda, di schiena, sensuale e con la battuta pronta. A chi ti sei ispirato?

R.: A mia nonna. Un emiliano d'origine, scorpione ascendente scorpione, è psicologicamente squassato dal mondo femminile. Fin da piccolo ne restavo stordito. La sartoria della nonna mi ha dato l'humus ironico, il calore di fondo. Poi la madre, la sorella, le femmine in classe, la prime fidanzatine, il sesso, l'altra metà del cielo. Mao forse la sentiva davvero distanza siderale. Io la sento dentro, un'altra metà del mio cielo. Il che non significa bisessualità, significa umanità. E quella femminile, spesso, è dolente. Si trucca, ma porta sulla schiena l¹ingiustizia economica e culturale della storia. “She”, la vedo nuda, di spalle, magnifica, ideale. Ne ho pudore. Quando parla, mi parla dentro. E mi spiazza. Qualche lettrice non credeva fosse scritta da me, pensava a una donna sotto falsa identità. Il capolavoro: togliersi di scena, anche come uomo. E poi She è il ritorno al segno, con il bagaglio del narratore. Un viaggio esaltante.

Cosa o chi ti piacerebbe disegnare?

R.: Una sfera perfetta e lontana. Per poi avvicinarmi. Di più, sempre di più. E vedere che la superficie è un groviglio umano, impastato nella natura. Avvicinarmi ancora, perforare la superficie. Dentro c’è l’acqua. Nuotare,arrivare al centro, fino a trovare un' altra sfera. Stavolta imperfetta e vicina.


di Manuela Caserta

Pubblicata su Il futurista del 16 giugno 2011

http://www.ilfuturista.it/intervista/lorenzo-calza-disegno-per-trovare-br-le-chiavi-dell-inquietudine.html

sabato 11 giugno 2011

Giuseppina Torregrossa: «L'uomo moderno? Ignora la natura e ha smesso di sorridere»

Ciò che accomuna una ginecologa ad una scrittrice è il modo in cui «tutte e due entrano nell'intimità delle donne, tutte e due entrano nelle dinamiche più profonde, tutte e due hanno a che fare con la sensibilità della donna e tutte e due portano alla luce qualcosa». Un romanzo, l'ultimo, dal nome evocativo e misterioso Manna e miele terra e fuoco, ambientato in una Sicilia risorgimentale, attraversata dalle lotte per l'unità d'Italia. Un mondo antico cristallizzato nella dialettica contrapposizione dei ruoli tra chi fa il padrone e chi fa il vassallo, che si perpetua sotto altre spoglie ancora oggi. Un romanzo come metafora esistenziale di una Sicilia attraversata dal tempo eppure ferma nel tempo. Giuseppina Torregrossa, ex ginecologa e scrittrice ci racconta come è nata una storia di passione e patimento, metafora del prezzo che il sud ha dovuto pagare all'unità d'Italia.

Manna e miele terra e fuoco, un romanzo d'altri tempi ambientato in una Sicilia risorgimentale. Com'è nato e cosa l'ha ispirata?

Avevo voglia di raccontare due piccole cose, da una parte la storia di una donna che si affaccia sulla libertà. Un percorso di coscienza, di consapevolezza e di maturazione di questa donna che viene privata della libertà e della gioia dell'infanzia. Sull'altro versante avevo voglia di raccontare questo cattivo matrimonio ch'è stato il nord e il sud, che però era inevitabile non si poteva fare diversamente l'Italia andava unita, così come Romilda andava unita al barone di Ventimiglia non c'erano vie di fuga. Certamente, il matrimonio fra l'altro era necessario anche se cattivo, ma era destinato a durare nel tempo, non potevano separarsi in nessun modo. E così è nata l'idea di raccontare e di rendere il matrimonio di Romilda una metafora e l'unione tra nord e sud una metafora esistenziale.

Sembra quasi una di quelle storie che si tramandano di generazione in generazione. C'è un elemento magico però, la manna. Che nel libro viene usata per un rito propizatorio.

Ho fatto il medico tutta la vita, ma da sicula d'origine, ho la tradizione del “cuntu”, la tradizione orale del racconto attorno al braciere, delle storie raccontate attorno ad una pignata o una tazza di caffè. L'elemento magico della manna invece è frutto della mia fantasia, io ho una fantasia incontenibile, e non riesco a imbrigliarla, tant'è che qualche volta faccio anche danno con la mia fantasia. La manna è una sostanza che mi ha colpito molto, e io ho anche imparato a fare la manna, sono andata nei boschi per imparalo, ho imparato a incidere, e ho passato diversi giorni a contatto con un mannaluoro, che mi ha insegnato a estrarre dai frassini questa linfa magica. E poi, il bosco è il luogo magico per eccellenza, un luogo da favola, un bosco anche salvifico. E il mio infatti, non è un bosco “cattivo” o pericoloso è un bosco che se rispetti è in grado di restituirti vita e felicità.



In questo romanzo si respira il profumo di sentimenti antichi, quali il rispetto, la fedeltà, l'amore vissuto anche con senso del dovere. Il dovere che può diventare sacrificio. Quasi educativo rispetto al consumismo sentimentale di oggi, un modello da seguire?

Io non ho la pretesa, di dare modelli, dare istruzioni o indicare la strada, sono però profondamente convinta che l'uomo sia diventato infelice perché si è allontanato dalla natura. E oltre ad allontanarsi dalla natura ha perso anche il sentimento e il sentire della vita. Intorno alla natura c'è la fattezza dell'uomo, noi oggi siamo tutti fondamentalmente infelici, se in città ci si guarda intorno, il viso delle persone è il viso delle armi non è il viso del sorriso. E non è perché tutti i giorni noi abbiamo delle tragedie in corso, è lo stile di vita che ci fa star male, il nostro tono dell'umore non dipende semplicemente da un pensiero, ma dipende anche da quello che mangiamo dall'aria che respiriamo, dal ritmo che seguiamo. Il ritorno alla natura può essere una soluzione, può essere comunque la salvezza del nostro pianeta, io su questo sono profondamente convinta che se noi non la smettiamo di comportarci in modo così dissennato, siamo destinati all'estinzione. Ma rimango ottimista, e ritengo che ci siano strade di salvezza e soluzioni, che vanno ravvisate nel ritorno alla natura.

Questo auspicato ritorno alla natura fa sorgere una domanda sul referendum al quale siamo chiamati domenica e lunedì prossimi. Che ne pensa?

I referendum sono una cosa alla quale noi dobbiamo assolutamente partecipare andando a votare. Per mille motivi, intanto perché i quesiti ci riguardano non necessariamente politicamente, o forse non c'è nulla di più politico di questo referendum, se vogliamo dare un termine politico alla sua accezione fisiologica, nel senso di polis. Noi non possiamo esimerci, perché i quesiti sono fondamentali e riguardano non solo il futuro ma anche il presente e la nostra qualità di vita. Quindi bisogna andare a votare qualunque sia la soluzione che ne verrà fuori. È chiaro che io sono orientata verso quattro sì, anche se ho delle difficoltà a pensare ad un ritorno alle municipalizzate per quanto riguarda il primo quesito sulla gestione dei servizi pubblici. È vero che, la privatizzazione non è dell'acqua ma riguarda solamente la rete idrica. Io vengo dalla Sicilia, dove l'Eas l'ente acquedotto siciliano, per anni ha dato l'acqua alla città di Palermo una volta ogni 15 giorni, dove l'acquedotto perde il 70% dell'acqua strada facendo e non sono mai stati fatti investimenti, e dove le municipalizzate non sono state altro che serbatoio di assunzioni irregolari e di assistenzialismo è questo il problema. Io ho imbarazzo a votare no, perché la mia storia m'impedisce di dire diamola ai privati ma sull'altro versante, noi abbiamo avuto una gestione pubblica disastrosa della rete idrica e ne paghiamo ancora le conseguenze. Il problema è nella trasparenza e nelle regole certe che in Italia vengono ignorate.

Si dice sempre che ogni scrittore scelga il personaggio in cui identificarsi nei suoi romanzi, e quasi mai si identifica scontatamente nel protagonista. Lei in quale si è identificata?

Io sono a tratti Maricchia e a tratti la figlia. Io ho pure una figlia di 23 anni e non nascondo che Romilda ha pure le fattezze di mia figlia. Ma non si tratta d'inserirci degli elementi autobiografici, è il sentire non è nei fatti. L'autore attinge al proprio sentimento, non ai fatti della propria vita, l'autobiografia è sempre nel sentimento che una ci mette.

Leggendolo si subisce molto la fascinazione della Sicilia, che passa anche attraverso la terminologia da lei usata. I dialetti che fanno parte delle nostre radici culturali, secondo lei si imparano per la strada o si dovrebbero insegnare a scuola, così come propose qualche tempo fa Bossi?

Io dico subito che la mamma degli scemi è sempre incinta sotto certi profili. Io credo che il dialetto, ammesso che si possa definire dialetto la lingua siciliana, che è invece una lingua a tutti gli effetti, credo che sia una lingua viva. Portarla a scuola e cristallizzarla in regole o teorizzare delle cose mi risulta estremamente difficile. Io parlo normalmente il siciliano, lo parlo con i miei figli che naturalmente non lo sanno parlare perché sono nati e vissuti a Roma, però lo capiscono. È la lingua di mia nonna e la lingua di mia madre, e ovviamente certe categorie Kantiane, o meglio certi a priori kantiani, il mio dialetto li esprime meglio della lingua. Perché poi la lingua è un tentativo di comunicare tutti, l'italiano è l'esperanto delle nostre regioni, serve a farci entrare in comunicazione con altra gente. Ma sull'altro versante ci impedisce però di attingere alle mille sfumature della nostra lingua. Ed è chiaro che quando io voglio esprimere una sfumatura precisa il siciliano mi viene in soccorso, l'italiano spesso, ahimè, mi sacrifica. Io mi sento ingabbiata nell'italiano. Dopo di ché volendo raggiungere un pubblico vasto e variegato sono costretta ad esprimermi in italiano altrimenti sarei isolata in una fatto autistico ecco. Credo comunque che, quest'idea d'insegnare il dialetto nelle scuole sia una sciocchezza, perché cristallizza il dialetto e lo mummifica mentre il dialetto è una lingua viva che cambia continuamente e cambia da zona a zona.

Il siciliano poi è una lingua che non ha futuro, si parla solo al passato. Il segno di un mondo dove il tempo è fermo, le cose non cambiano, ma si continua a sperare?

Io credo che la Sicilia in questo momento sia una terra disperata che non abbia nessuna speranza. E le colpe sono da ricercare nel nostro immobilismo. Noi abbiamo una quantità di risorse di tutti i tipi e potremmo andare avanti, potremmo essere modello e progetto pilota per l'Italia. Purtroppo è questo senso dell'instabilità che ci rende un po' schiavi del destino, il fatalismo, che ci porta un po' a renderci così un popolo senza speranza, e poi l'idea che tanto non ci riguarda che riguarda sempre gli altri. Perché il siciliano ha una spinta autonomistica che poggia su un individualismo sfrenato, quindi non si sente mai parte di una comunità. La società è fatta di individui, siamo tutti cellule di uno stesso organismo, pensare di potersi comportare in forma anomala ci fa diventare dei cancri. Perché poi alla fine uno che non rispetta le regole collettive è un cancro.


Cosa è cambiato nella Sicilia di oggi rispetto ai rapporti di forza che un tempo regolavano le relazioni fra caste sociali?Un tempo c'era il barone e i suoi feudatari. Oggi?

Siamo un popolo di vassalli, da noi il feudalesimo non è mai morto, e finché non muore il feudalesimo saremo sempre portati a far lobby e la lobby troppo deviata diventa mafia. È il questo il nostro problema di fondo, ma è un problema che oramai riguarda tutta la nazione e lo aveva già detto Sciascia, che era un visionario, l'unico intellettuale che forse riusciva a fare delle previsioni e parlava della “terronizzazione” dell'Italia che purtroppo è un modello che è diventato internazionale.

Lei è curatrice del premio letterario Scopello, difficile portare avanti un'idea di cultura in questo Paese?

Il premio Scopello si è fermato alla prima edizione, per le mille difficoltà e l'assenza delle istituzioni e delle amministrazioni locali. Credo che nessuno pensi più che in Italia si possa far cultura, la cultura in sé sembra essere diventata una parolaccia.

Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online l'11 giugno 2011