Pensiero del giorno

•‎In un momento della vita, al momento giusto, bisogna poter credere all'impossibile Christa T. - di Christa Wolf

domenica 29 maggio 2011

Sulla barca di Vinicio tra Marinai Profeti e Balene

Uno dei concerti più suggestivi di Vinicio Capossela, è stato quello realizzato nella Baia del Silenzio di Sestri Levante, un nome evocativo per un concerto dall’atmosfera magica, in cui la musica arrivava dal mare, con Vinicio che suonava il pianoforte su un’imbarcazione, mentre il pubblico ascoltava rapito dalla spiaggia. Un concerto che anticipava nelle note e nelle parole questo doppio album: Marinai Profeti e Balene.
“Le sirene non hanno coda ne piume cantano solo di te, l’uomo di ieri, l’uomo che eri a due passi dal cielo, tutta la vita davanti tutta la vita intera e dicono fermati qua fermati qua…” . Un’Ulisse immaginario, quello che in fondo c’è dentro ognuno di noi, è il protagonista dell’ultimo racconto discografico di Vinicio. L’ “errare a causa dell’errore”, come il Lord Jim di Conrad che ispira un Capossela, stavolta più intenso e ricco che mai di evocazioni letterarie, contaminazioni musicali e miti greci. Il mare è il protagonista assoluto di questa sorta di Odissea in note, circa 86 minuti di musica, di oceanica ispirazione. Omero, Melville, Conrad e quelle strane creature che abitano gli abissi “tra spettri e vascelli fantasma”. Come il Polpo d’amor, pieno “di tentacoli senza tentazioni” e di braccia per abbracciarsi anche da solo. Un viaggio onirico e omerico, nella scelta di realizzare un disco con un coro di musicisti, che va oltre il concetto di semplice band. Registrato sull’isola di Ischia, quest’album, del mare, non poteva che respirarne tutto il profumo, gli echi, il mistero e le onde. Inutile dire che vi è davvero registrata qualunque tipo di “onda”, basti pensare al complesso di strumenti usati per musicare ogni singola canzone, ciascuna ha una sua ricercatezza musicale che la rende unica, un’opera nell’opera.
Strumenti insoliti, usati con l’ingegno di un designer, di un creativo del suono, come le percussioni indonesiane Gamelan, la Viola d’Amore Barocca, le Onde Martenot, la Sega musicale, il Santur e l’Ondioline, che insieme ad un vero e proprio coro da tragedia greca, hanno accompagnato la voce di Vinicio. Si sono aggiunte le voci bianche dei Mitici Angioletti, i Dunrk Sailors, le voci ancestrali portate in scena da Valeria Pilia e le Donne Sarde di Actores Alidos, le Sorelle Marinetti e il Coro degli Apocrifi. Non basta definirlo “il nuovo album di Vinicio Capossela”, è un’opera di ricercatezza acustica, di suoni inconsueti che trascinano l’ascoltatore in un viaggio negli abissi. Da “All’una e trentacinque circa” in poi, vincitore del premio Tenco come miglior opera prima, Capossela ci ha abituati ad un crescendo di esperimenti musicali, la nostalgica voce “stonata” del “pugile sentimentale” è diventata sinonimo di un genere unico, pieno ogni volta di citazioni nuove e di nuovi mondi. Dalla Ballata di San Vito, che Vinicio stesso definisce “non un disco ma una vicenda”, fino a Che coss’è l’amor diventato la colonna sonora dell’Ora di religione di Marco Bellocchio, si sconfina dalla taranta al jazz. Il filo conduttore con il cinema, per Capossela è uno degli aspetti della sua poliedricità, nel 2009 partecipa con un cameo all’opera prima del regista Valerio Mieli, Dieci Inverni, film per il quale scrive anche una struggente colonna sonora dal titolo Parla piano. I generi si mischiano irriverentemente verso ogni tentativo di definizione, un “Jodoroswky” della musica, un Capossela appunto.

Da quando Francesco Guccini lo scoprì, circa vent’anni fa, questo ragazzo venuto da Hannover che porta dentro le radici dell’Irpinia non ha mai sbagliato un colpo. Ci sono notti in cui vorresti che l’alba non arrivasse mai, parafrasando ciò che disse Vinicio durante un’intervista, è vero, ci sono notti molto più intense, rivelatrici e piene di vita dell’alba che porta il sole. Le stesse in cui le parole di una canzone vengono fuori a manovella, “momenti in cui l’anima si stura”. Le sirene è venuta fuori così, un pezzo che prima durava 40 minuti. Sì, c’è da ammetterlo, nei suoi album ci sono anche canzoni che si trascinano malinconicamente troppo, vi sono lunghe riflessioni nostalgiche insieme a veri deliri di creatività melodica e letteraria, dove invece l’ispirazione va oltre. Per questo disco registrato sull’isola di Ischia, Capossela ha preteso che un vecchio pianoforte anni 30, un imponente Seiler, venisse issato fin su la rocca dell’antico Castello Aragonese, dove arrivava solo il rumore dei gabbiani, del mare e del mito, un disco registrato in un’antica cripta sul mare.

Ma non sarebbe la prima volta che Vinicio sceglie un luogo insolito, un ameno rifugio musicale dove registrare le sue canzoni. Anche quando registrò Brucia Troia, singolo che appartiene all’album “Ovunque Proteggi” uscito nel 2006, scelse di farlo insieme al celebre chitarrista Mark Ribot e tre tenori sardi dentro la grotta carsica di Ispinogoli in Sardegna. Ci sono, è vero, degli spazi vuoti nella sua discografia, dopo “Canzoni a manovella”, l’album che decretò il suo successo secondo unanime giudizio, mantenere l’apice della qualità, assoggettandosi alla legge del mercato, avrebbe probabilmente sporcato tutto il percorso fatto. Il lungo silenzio scelto dall’artista, che lasciò i suoi fan ancora sognanti sulle note di Con una Rosa, il singolo più amato di quelle “Canzoni a Manovella”, fu interrotto solo da una raccolta pubblicata tre anni dopo, dal titolo “L’indispensabile”.

Ma il vero ritorno sulla scena arrivò nel 2006 con “Ovunque Proteggi”, un disco che vide la collaborazione artistica, di musicisti di lungo corso come il trombettista Roy Paci, il newyorkese Marc Ribot alle chitarre, Gak Sato all’elettronica, con il quale confermò la continua ricerca di contaminazione musicale e altri celebri musicisti. Un tour quello del 2006, nel quale Capossela apriva la scena, cantando Brucia Troia, con indosso una maschera cornuta da caprone, una pelliccia e i campanacci al collo. La sua voce graffiante e cattiva come quella di una creatura mostruosa, insieme al crescere martellante di suoni e tamburi, faceva perdere la precisa cognizione dello spazio teatrale. Una scena pagana, legata al mood della canzone Non trattare, intrisa di una riflessione dissacrante verso tutti gli aspetti più gretti della religiosità popolare. Se è vero che ci sono notti in cui vorresti che l’alba non arrivasse mai, rimane indimenticabile quella notte bianca a Roma, quando l’alba arrivò sulle note di Ovunque proteggi nella splendida cornice del Pincio. Il nuovo tour, ha tirato le cime in barca ed è salpato per la nuova avventura il 26 aprile, partendo da Genova, città di mare, di poeti ed esploratori.

Il viaggio ha già la rotta segnata alla ricerca di nuovi paesaggi, sono previste molte tappe estive in spazi aperti e tappe all’estero. Il tour infatti, passerà da Parigi, Colonia, Zurigo, più una tappa argentina a Buenos Aires. Il doppio album è stato dedicato a Renzo Fantini scomparso recentemente, che fu manager anche di Guccini e Paolo Conte e a Bekim Fehmiu, il protagonista dell’Ulisse del 1968. La scenografia rappresenterà il titolo dell’album, sarà volutamente scarna, anzi “ossea”, con grandi costole all’interno delle quali i musicisti suoneranno come piccoli pesci dentro la pancia di una balena. Un’arca di Noè in versione Capitan Maltese, che scommettiamo, lascerà una lunghissima scia di successo solcando un mare di musica.

di Manuela Caserta

Pubblicato su il settimanale Il Futurista settimanale del 12 Maggio

martedì 24 maggio 2011

Bob Dylan: 70 anni di poesia musica e protesta sociale

Se dici Bob Dylan, dici blues. Ma anche country, jazz e rock. Non si può chiudere in una definizione un musicista polivalente come lui, che a 70 anni e 50 anni di carriera, ha spaziato tra generi ogni volta diversi. Contaminazioni creative, che hanno fatto di alcuni pezzi storici come Blowin o Like a Rolling Stone il simbolo della controcultura americana.

Ci sono tanti modi per arrivare alla musica, ma pochi passano prima per la letteratura. La gran parte dei cantautori, ti dirà che cantare era una vocazione innata, che fin da piccolo ascoltare i dischi in vinile di mamma e papà li faceva sognare. Bob Dylan no. Lui è arrivato alla musica passando prima da Brecht e poi da Kurt Weil. Robert Allen Zimmerman è uno, che quando si è scelto un nome d’arte, lo ha fatto ispirandosi alle poesie che leggeva di Dylan Tomas. Questo giovane canadese, con origini ebraiche, è figlio di un operaio della Standard Oil Company, che cresce ascoltando le radio locali che trasmettono musica folk e country, quella musica folk che Dylan farà diventare elettronica, contaminando il genere contro i puristi dell’epoca. Quando approda nella grande mela, comincia la sua lunga e folgorante carriera.

Negli anni 60 diventa per molti quasi un profeta, le sue canzoni di protesta sociale e battaglia politica ne fanno un mito, quando arriva a Woodstock è semplicemente il simbolo di una intera generazione. Era il 1963 e Dylan frequentava un altro pezzo di storia della musica country come Joan Baez. Entrambi erano il simbolo della lotta per i diritti civili, partecipavano a diverse manifestazioni e raduni, cantarono anche alla “marcia su Washington”, dove Martin Luther King pronunciò il suo celebre discorso “I have a dreams”. E come dimenticare A Hard Rain's a-Gonna Fall, uno dei suoi pezzi folk, più impegnati contro l’apocalisse nucleare. Dylan è sempre stato un innovatore, uno che passava da Woodstock a New Orleans, uno che scrive una intensa autobiografia nel 2004 dal titolo Chronicles, una lunga galleria di personaggi e vissuto, da qualcuno definita più che una autobiografia una “personal essay”.

Scrisse: “I think the truly natural things are dreams, which nature can’t touch with decay”, penso che le cose veramente naturali siano i sogni, che la natura non può toccare con decadimento. Ma a chi gli chiese se si fosse mai sentito un poeta rispose: “Se mi sento un poeta? Qualche volta. È parte di me. È parte di me il convincere me stesso che sono un poeta. Ma ci vuole molta dedizione. Molta dedizione”. Buon compleanno Bob Dylan.
Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online il 24 maggio 2011

mercoledì 18 maggio 2011

Sbadatamente ho fatto l'amore di Camilla Baresani

«La differenza di fondo che c’è tra il personaggio pubblico protagonista del mio romanzo, viveur, donnaiolo, apparentemente superficiale e un uomo di fama e potere di oggi, è la cultura. Una volta ciò che si ostentava in certi ambienti era la propria formazione culturale, oggi invece ciò di cui si fa sfoggio sono le scopate» Sbadatamente ho fatto l’amore è il secondo romanzo di Camilla Baresani, che la casa editrice Bompiani, ha deciso di ripubblicare.

Racconta la storia di un musicista di successo vissuto negli anni della dolce vita, un consumista di mondanità, famoso e donnaiolo, il classico narcisista cinico, che ad un certo punto della sua vita, aiutando uno studente a compilare una tesi su di lui, si ferma a riflettere sull’incontro con una donna avvenuto durante una di quelle notti brucianti, trascorse tra fiumi di alcool e divertimento sfrenato. Un incontro apparentemente fra tanti, tralasciato e dimenticato come una delle mille cose fatte per caso ieri. Ma arriva il momento in cui, durante il racconto della sua vita, Manlio, il protagonista, affronta il ricordo che riemerge, torna a galla, si accende una luce su quell’istante, la mente torna indietro e riavvolgendo il nastro, sorgono domande. L’incontro con una donna insignificante fisicamente e misteriosa, che porta una “etichetta” addosso, imprime in Manlio un fastidioso senso di colpa, uno di quelli che non infili nell’archivio insieme agli altri, perché senza accorgertene diventa una piccola voce in fondo al cuore. Un punto fermo nei suoi ricordi, che lo porterà a cercare in un viaggio a ritroso quella donna mai più vista, aprendo al lettore uno scenario inatteso. Camilla Baresani, scrittrice e giornalista, lo scorso inverno ha pubblicato il suo ultimo romanzo Un’Estate fa ambientato tra Roma e Milano. La Baresani non si legge solo per coinvolgimento o identificazione con i personaggi dei suoi romanzi, ma perché scorrendo le sue pagine, si coglie una ricchezza di dettagli, colte citazioni e stile che lascia sempre soddisfatto il lettore.

Manuela Caserta

Pubblicato su Il Futurista settimanale n. 1