Pensiero del giorno

•‎In un momento della vita, al momento giusto, bisogna poter credere all'impossibile Christa T. - di Christa Wolf

venerdì 5 ottobre 2012

L'ebetismo del riccio


Ci sono giorni, in cui il mio vero io vorrebbe fare capolino come il leone della Metro Goldwin Mayer, anche con un po’ più di verve se possibile. Giorni, in cui l’istinto primordiale che ci portiamo nascosto dentro il cemento armato, sotto strutture di apparente civiltà, vorrebbe venire fuori come un dobermann. Giorni, in cui a tutti i libri che ho letto e che leggo, potrei pure dare la colpa e l’alibi alla mia latente follia.

Ricordate la scorbutica portinaia Renée dell’elegante condominio signorile di Rue de Grenelle n.7? L’eleganza del riccio è stato un libro rivelazione di qualche anno fa. Muriel Barbery, in quel libro, ha di fatto giocato con il mito borghese parigino, e tirato fuori questa figura onirica meravigliosa come un unicorno, che avrà incantato sicuramente tutto Saint Germain. Ma solo per un complesso di colpa.

Io abito a Prati, è la mia portinaia, moglie del mio portinaio, mi costa una considerevole cifra al mese. È riccia, antipatica, ebete. Le manca la parola, perché non sa rispondere al saluto, parla sempre al telefono della portineria, quello che paghiamo noi, e quando non telefona guarda la televisione. È una gatta moscia, sposata con Zeno, il portiere. Uno che s’è visto troppi film della Magliana, che c’ha i baffi anni 70 come si portavano nei film di Starsky e Hutch, e che non so perché, sfoggia sempre l’aria del bidello subito dopo la ricreazione.

Zeno, secondo me, non sa manco perché si chiama Zeno, ma si crede un dio. Parla solo romano con qualche variazione in italianese. Ossequia i notai, gli avvocati, i dentisti, i commercialisti e tutti quelli del palazzo, che hanno apparentemente il titolo scritto sulle banconote di cortesia che tirano fuori ogni tanto. A tutti gli altri, dà automaticamente del tu, e si rivolge in cialtronese.
Quando il bidello s’incazza, gonfia il petto, poggia un pugno sul fianco, e mentre la gatta ebete lo guarda, lui tira fuori tutta l’aria che ha dentro, e con il fiato che fete intima: «Io faccio le feci dell’amministratore hai capito!!». E si vede, ma soprattutto si sente pensai io.

Questa fu la sua dichiarazione di guerra ufficiale, all’indomani della quale, il mastino che è in me, decise che se pure dovesse durare quanto quella del Peloponneso…ne resterà solo uno.

L’ebetismo del ricco – prima puntata.

giovedì 20 settembre 2012

Elucubrazioni da Social Media


Che ci faccio qui? È la domanda che ripetutamente ti gira in testa, ma l’accantoni un attimo dopo l’ultimo post lasciato dalla stessa persona che followi su twitter. Non te ne sei nemmeno resa conto, non sai nemmeno come hai fatto, ma stai esattamente a metà del tunnel:buio da un lato e buio dall’altro lato. È peggio del crack ammettilo, tutte quelle elucubrazioni, tutte quelle battute che ti rubano il tempo..spasmi. Spasmi di attività cerebrali.

E poi ammettilo, ti è venuta la sindrome del follow che una volta si chiamava voyeur, e tale resta nella sintesi e nel contenuto. In questo delirio di parole, di seguaci e seguiti che cinguettano fra di loro, tu non sai più che farci. Ti stanno quasi venendo gli attacchi di panico, non riesci a credere che le notizie le dia prima Twitter e dopo Repubblica. Che non c’è più religione, se uno che si credeva uno scrittore, in cinque minuti passa dall’adorazione dei suoi lettori, al massacro senza se e senza ma del primo intellettualoide, che twitta senza un nome vero, e con la foto di una scimmia piuttosto che del suo cane. Ho ricominciato a tifare per FB, sì lo ammetto. Nella messinscena quotidiana dei propri panni stesi al sole, dello sfoggio di questo o di quel ruolo in questo maledetto teatro senza tavole di legno, senza nemmeno il rumore di un passo falso, FB snobbato e oltraggiato come la piazza ignorante dei social, è il mio centro sociale preferito. Il mio Brancaleone, fatto di persone e musica e video e gente che si parla e che s’incontra non solo qui.

Anche se ieri, e pure l’altro ieri, e pure l’altro ieri ancora, mi sono affacciata su una bacheca che conosco. Tutto quel muro sporco di like, e frasi a metà, e ammiccamenti, vanità, e poi discese umorali e risalite a botte di cinismo a singhiozzo. Mi riaffaccio e poi mi eclisso, io lì non ci vado mai, leggo ma poi mi nascondo. Guardo, intuisco, quasi mi avvicino a quel like, poi no. Mi ritiro, cambio pagina chiudo la porta, ricompongo i miei pensieri, ce ne lascio uno dentro come un pezzo di carta strappato, e fuggo via come un gatto. Non sei normale mi dico, e no che non lo sono. Ecco una di quelle cose che su FB è come restare appesi a un gancio, che se non ci stai attento ti buca pure la pelle. Quando una relazione si chiude, se per dispetto uno dei due non ha cancellato l’altro immediatamente, e si è rimasti amici su FB fingendo quell’elegante e masochistico senso di civiltà che fa tanto indifferenza apparente, succede, che poi anche se non lo vuoi, se non l’hai mai fatto prima, se sei uno di quelli che pensano: “ma figurati sai che mene frega!” con la spocchia di chi ha già voltato pagina, facendo 10 nuove e inutili amicizie al giorno, poi, se per sbaglio vuoi andare a vedere che succede sulla bacheca del tuo/a ex, è la fine.

Il giorno dopo ti conviene prendere appuntamento subito da uno psicoanalista. Non fare il duro, lo sprezzante, e il sufficiente, non sopravvive nessuno a quella tentazione, i più audaci arrivano a sospendere il loro account, fingendo di sparire per qualche tempo. Ritorno, ritorno presto, sai…-dicono agli amici- sono dovuto sparire per n po’, la facevo stare male, è meglio così. Un attimo dopo attivano l’account e si affacciano alla finestra, si prendono due o tre pugnalate e affogano la nevrosi in un pacco di Gitanes, immedesimazione esistenzialista che si traduce in un Gainsbourg al giorno postato sulla tua bacheca. Sono passati mesi, mesi e dico mesi, da quando hai tagliato i ponti. Ma sei rimasto lì su quella metà spezzata, invisibile all’altro, ma pure i fantasmi soffrono. L’ultima comunicazione fra di voi è stata calda come il tepore che t’investe quando hai finito di scongelare un telegramma al microonde, eppure cerchi invano tra le righe di un suo post una citazione, una virgola, una parola che possa essere riconducibile a te. E quando ti sembra di averla trovata, e stai lì che gongoli come se ti avessero appena dato un premio alla resistenza, arriva la mazzata finale:sì la citazione c’era, c’è, ma è perché pure l’altro si chiama come te…

Ci vediamo su twitter, che è meglio.

martedì 24 aprile 2012

Sulle orme del peggior Céline di Charles Dantzig


Sulle orme del peggior Céline, Charles Dantzig

Articolo pubblicato su LA LETTURA n°22, 15 aprile 2012, inserto culturale del Corriere della sera.



In Francia dilaga un volgare realismo populista. Il morboso Littell e i punti esclamativi di Hessel
di CHARLES DANTZIG

Sappiamo che la parola «popolo» è un’usurpazione di linguaggio. Il popolo comprende tutti, come nell’espressione «il popolo francese», o nessuno. In tempi di crisi, certi politici denominano lusinghevolmente «popolo» coloro che soffrono o temono di soffrire, o immaginano di soffrire. Il populismo dà una purezza fittizia a una parte fantasticata della popolazione. È l’astuzia dei furbi e la forza dei disperati. Tutti coloro che fanno fatica, a vivere o a farsi eleggere, tendono ad allinearvisi per giustificare le sconfitte. E se mirano alla vittoria, è solo per esercitare la vendetta.
È questa idea ipocrita, poiché ricusa la parola che la definisce, a far sbandare le democrazie. In letteratura, il populismo va e viene. Nel 2012, si chiama realismo. Si è installato con la potenza di un aereo in volo l’11 settembre 2001: talvolta la storia è abbastanza gentile da segnalare con precisione il momento fatale. Da quel momento, la brutalità piomba nelle arti (nei fatti, essa è eterna).
Si è imposta molto presto. Il film di Quentin Tarantino Bastardi senza gloria (2009) l’ha estetizzata con allegra stupidità. Il libro Le benevole di Jonathan Littell (2006), scritto così male che non lo si può dire morboso —ci sono del resto meno libri morbosi che pubblico morboso —, era stato un sintomo, un dispositivo che aveva scatenato qualcosa che ha fatto saltare la diga. Dopo questo romanzo, i voyeur, gli osceni, gli utilitaristi, i maschilisti, insomma il contrario della letteratura, si son precipitati sul libro, dando un cattivo esempio di quello che si poteva vendere, e che poteva poi essere imitato. Fino a quel momento, avevano avuto a disposizione solo opere non letterarie e quindi senza conseguenze, come i ricordi di ex legionari dell’Algeria e cose del genere.
La brutalità è improvvisamente marchiata come «letteratura». La si può ammirare! Non era successo dai tempi di Louis-Ferdinand Céline. Cosa accadrà del monumento alla brutalità che sono i suoi pamphlet, quando la vedova non ci sarà più? Quest’ultima ne vieta la riedizione, come lo stesso Céline aveva fatto. Son pronto a scommettere che, con il pretesto del valore documentario, della storia letteraria, della testimonianza storica e altre ipocrisie, saranno di nuovo pubblicati, e si tratterà soprattutto di un’operazione commerciale. Beninteso, verrà ripetuta la frase di un libellista degli anni Sessanta: «Pubblicherò il mio peggior nemico se sono sicuro che ha talento». In parole non menzognere, si dice: «Pubblicherò il mio peggior nemico se sono sicuro che le sue opere mi frutteranno». E quando saranno state vendute 200 mila disgustose copie di La bella rogna si tenterà di far finta di niente. Se possibile. I bruti resi gloriosi dall’estetizzazione non si fermano così presto.
La crisi in cui viviamo sollecita domande. Gli ingenui, spinti dagli astuti, le pongono alla letteratura.
Come se fosse la Corte dei Conti. Ai primi, questo serve a tranquillizzarsi, ai secondi ad assoggettare quella folle letteratura che trova sempre il modo di sfuggire al dovere. La clientela di un certo tipo reclama il reale. Che le viene fornito. Tutto sommato, funziona. Asserviamo dunque la fiction al reportage, la forma alla narrazione, l’inutile al morale. Ritengo l’inutilità della letteratura come una sua superiorità: vedi per esempio l’inutilità delle sculture di Brancusi o delle cantate di Scarlatti.
Il realismo mi sembra un’illusione. Esiste, non lo contesto, ed è sempre esistito, ma in un certo tipo di letteratura, utilitaristica, sostituibile e sostituita. Questa forma di fiction, lamentosa e al tempo stesso minacciosa, generalmente fa felici i suoi autori. Ed ecco che ai giorni nostri ci sono romanzieri americani che danno pagine di interviste per parlare non del modo in cui si scrive un libro, ma del destino delle classi medie; ci sono pesanti romanzi francesi il cui stile, ci vogliono far credere, si accorda con il soggetto: il fatto è che gli autori non sono riusciti a fare qualcosa di meglio e chi li protegge teorizza la loro incapacità. Allo stesso modo, quando esprimono opinioni volgari, c’è chi va in soccorso degli autori dicendo che volgari sono i loro personaggi. Se si aiutano tanto i realisti è perché il loro soggetto è immediatamente comprensibile, comunemente accessibile. E la forma, che è la letteratura stessa, perisca pure! Guai a chi infastidisce i realisti! So bene che con questo articolo avrò ancora i gentili amatori di Céline contro di me. Bisogna tuttavia dire che il realismo non è per niente favorevole alle «classi medie», che finge di descrivere. Anzi ledisprezza. Il realismo è un ricatto. Certi scrittori, che hanno un reale diverso dal vostro e dal mio, decidono che il loro è l’unico, e che tutti vi si devono sottomettere. Il reale fluttua secondo la potenza politica di tale o talaltro partito. Negli anni Cinquanta, con la letteratura del «realismo socialista». Negli anni Novanta, direi che il reale è passato alla reazione. I reazionari degli anni Novanta hanno inventato un fantasma: il «politicamente corretto». Ci vuole abilità nel crearsi un avversario fittizio! Lo si può attaccare all’infinito gridando che non viene mai abbattuto. Tutti coloro che erano stati sopraffatti dalla liberazione dei costumi —in effetti era qui il punto segreto della loro rabbia — hanno impiegato del tempo a organizzarsi e a far risentire la propriavoce. Si sono fatti avanti lottando, insinuando, sistemando la gente nei media. E come se alla fine non avessero avuto la meglio, come se non avessero posti e bestseller, come se non fossero loro a fissare gli argomenti di dibattito, continuano a dirsi minoritari e insolenti. Il maestro Céline ha insegnato loro la tattica del gridare alla persecuzione quando si è in pieno trionfo e, soprattutto, quando si sogna di perseguitare gli altri. Sapevamo, fin dai loro antenati della fine del XIX secolo, che il realismo non crede all’esistenza del gratuito e del luminoso. È mosso da un amore subdolo del male. Del resto, non c’è bisogno di presupposti morali per creare il populismo in letteratura. Una estetica populista che non dica cose populiste si manifesta con uno stile pesante, contorto, deprimente. E diffonde le sue scempiaggini con maggior sicurezza degli stili scandalosi, che provocano pur sempre reazioni. Il realismo simpatico non è meno nefasto del realismo perverso. È impressionante come la lista delle migliori vendite di saggi della rivista «Livres Hebdo» sia infettata da punti esclamativi. È il segno di punteggiatura dei populisti. Stéphane Hessel, che potrebbe essere un falso cortese e un vero caporale, è l’autore di Indignatevi!. Impartendoci un ordine, è da un anno in cima alle classifiche di vendita. Il suo titolo con ingiunzione è imitato da: Jacques Attali, Candidats, répondez!; Christine Levicki, J’arrête de râler!; Julien Lepers, Les fautes de français? Plus jamais!; Marcel Rufo, Tiens bon!. Naturalmente, quando si esamina il senso dei titoli, il populismo è confermato. Quel pazzo di Péguy sapeva almeno una cosa: che le frasi
esclamative non hanno necessariamente bisogno del punto esclamativo. Restano ugualmente imponenti e perdono in repulsione. Questi «strumentalizzatori» della letteratura non scrivono, sono come i predicatori di Hyde Park che sbraitano arrampicati su uno sgabello. Il realismo è anche terrorismo. Se non gli ubbidite, insinua che voi siete un frivolo, un indifferente, un inutile, un parassita. Forza suppletiva di una politica equivoca, l’estetica della brutalità svanirà quando questa politica avrà fatto passi indietro. L’abbiamo visto mille volte, i grandi maschi che danno ordini sono imitatori di padroni.


giovedì 12 aprile 2012

Piazza Fontana:Una finestra sulla strage diventata un romanzo

Una lunga notte insonne, comincia così la descrizione di quella notte in Una finestra sulla strage, il libro scritto da Camilla Cederna sulla strage di Piazza Fontana. Una lunga notte insonne quella che segue i funerali delle vittime della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, interrotta da una telefonata fatta da due colleghi giornalisti:Gianpaolo Pansa e Corrado Stajano che passano a prenderla nel cuore della notte, dopo aver appreso quello che era avvenuto in questura. Ad una strage si aggiunge una tragedia: «un uomo si è buttato dalla finestra della questura, non farci aspettare, andiamo a dare un’occhiata» sono le parole scioccanti di quella telefonata.

Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana è tratto dal libro di Paolo Cucchiarelli, ma io qui ho volutamente avanzato il confronto con Una finestra sulla strage di Camilla Cederna, che all'epoca dei fatti fu tra i primi giornalisti che seguirono da vicino l'intera vicenda. Nel film di Giordana, Camilla Cederna ha il volto dell’attrice Benedetta Buccellato, che insieme agli altri colleghi (e nei fatti storici) insieme a Renata Bottarelli dell’Unità e Giampiero Testa del Giorno, vengono “gentilmente” ricevuti in questura, poco dopo la tragedia, dal questore Guida, dal capo dell’ufficio politico Antonino Allegra e dal commissario Calabresi, in un’atmosfera surreale e patinata che la Cederna descrive sgomenta raccontando che sembrava «un salotto in cui mancava appena che venisse offerto un bicchiere di whisky». Questa stessa scena nel film si svolge davanti a un commissario Calabresi che tenta di mantenere il suo storico aplomb da maglioncino a collo alto e completo giacca e pantalone, che lo contraddistinguevano dalle solite cravatte strozzate dei colleghi. Nel suo ufficio qualche ora prima, un uomo era misteriosamente volato giù dalla finestra, Calabresi, in quel tragico frangente non c’era, questa è la versione che sposa anche il regista Marco Tullio Giordana. I giornalisti chiedono “perché non avete informato immediatamente i familiari?” e il Calabresi di Giordana risponde istituzionalmente con un tono pacato appena in imbarazzo, come fosse Homer Simpson che dice: “Siamo stati impegnati”. La risposta che nei fatti realmente accaduti, Calabresi dette alla vedova Licia Pinelli che chiamò in questura per chiedere perché non l’avesse avvisata, fu: «Ma sa, signora…abbiamo molto da fare» da brividi. Il film ha una prima parte senza strumenti narrativi, una serie di singoli episodi fotografano in maniera didascalica gli avvenimenti storici dai quali si fa iniziare quella che fu definita la strategia della tensione.

L’anarchico Pinelli dopo la strage di piazza Fontana, fu trattenuto dall’algido commissario Calabresi per tre giorni in questura. Trattenuto in “stato di fermo di polizia prorogato dall’autorità” questa la risposta del questore Guida che la Cederna annota sul suo taccuino. La linea dura che le istituzioni decisero di adottare nell’immediatezza dei fatti di quel 12 dicembre 1969 fu quella di cercare i colpevoli ad ogni costo, anche a costo d’inventarseli. Scatta la rappresaglia, cresce il panico, la situazione è incontrollabile, le autorità sono disorientate dalla crescente e imprevedibile violenza degli attacchi terroristici e cominciano a mostrare i muscoli. Pinelli era un esponente anarchico del circolo della Ghisolfa, che Calabresi tampinava alla ricerca di una pista sulle frange più violente. GianGiacomo Feltrinelli era uno dei suoi chiodi fissi, e nel film appare in una scena dove fa la parte del guerrafondaio in un’assemblea all’università, Feltrinelli è una citazione che fa eco, ma nella narrazione del film non trova connotazione. Quando i giornalisti arrivano in ospedale, il medico di turno Nazzareno Fiorenzano dà notizia alla Cederna dello stato di salute dell’uomo che è stato accompagnato al pronto soccorso da un’imponente scorta della questura. “Niente più attività cardiaca apprezzabile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto ma non c’è niente da fare, durerà poco”. Un attimo dopo chiede alla giornalista chi fosse quest’uomo, dato che la polizia non aveva dato alcuna risposta alla sua domanda, e la Cederna rispose «È un anarchico si chiama Giuseppe Pinelli».

Romanzo di una strage prende piega dopo le immagini su Piazza Fontana, ma non riesce ad amplificare la forza implicita dei fatti storici, sembra l’autopsia di una tragedia, e i dialoghi a tratti hanno anche una notevole capacità sedativa inaspettata. Perché dipingere Moro sempre con quell’aurea da santone inconsapevole?! Gifuni ha l’aria dimessa dello statista rassegnato, un fiume di retorica, in mezzo ad altre figure istituzionali senza scrupoli, ciniche e cupe come quella di Saragat. Il Calabresi di Valerio Mastandrea, che si racconta esser stato un funzionario di polizia sopra le righe, un “intellettuale” ha il profilo basso della vittima preannunciata. Ma la gentilezza che lo faceva spiccare su gli altri, contraddiceva con il Calabresi che aveva preso parte anche a qualche significativa repressione contro dei manifestanti, che gli era valsa una denuncia per attentato ai diritti politici dei cittadini. Giordana racconta il lato “intellettuale” del giovane commissario, mettendo in scena i due protagonisti all’interno di una libreria, dove la conversazione fra i due nemici leali scivola negli stereotipi ideologici. Pinelli spiegando a Calabresi la matrice non violenta dell’anarchia, gli suggerisce un libro: l’Antologia di Spoon River, e Calabresi risponde prendendo in mano un libro sulla guerra fredda. Ma se davvero lo scontro sociale dell’epoca fosse stato solo culturale o essenzialmente tale, il sistema non avrebbe avuto bisogno di tutelare se stesso ad ogni costo. E Calabresi non avrebbe avuto bisogno di omettere una verità così come il film di Giordana ci riporta. L’Antologia di Spoon River secondo una lettera che circolava al tempo, Pinelli pare l’avesse spedito al compagno Paolo Faccioli detenuto in carcere per gli attentati del 25 aprile, proprio in quel funesto 12 dicembre. Quel livido sulla nuca di Pinelli , diventa uno dei punti controversi del dibattimento processuale, si ipotizza sia stato inferto con un colpo di karatè, ma la cosa venne liquidata in modo ben diverso. Suicidio o defenestrazione divenne questo il dilemma processuale nel quale si negò la costituzione di parte civile ai familiari. Il film si chiude sui titoli di coda che portano in rassegna l’excursus giuridico di condanne e assoluzioni in appello. Di quella che fu una strage di destra, si assume che fu quasi bipartisan, due bombe depositate col medesimo intento, una di destra e una di sinistra, la par condicio è una condizione ineluttabile per l’autoassoluzione storica di Stato. E si aggiunge una terza via, quella dei servizi segreti deviati che invisibilmente manovravano l’intero sistema di potere con un solo scopo. Ma davvero questa fu una strage fatta da “menti di destra e manovalanza di sinistra”? davvero la verità storica coincide con quella giudiziaria? Per la prima volta Marco Tullio Giordana mi lascia perplessa, e con la sensazione che non abbia voluto osare veramente, volendo più che avanzare dubbi puntellare una delle tante verità storiche.

E se vi dovesse sorgere ancora la domanda:chi è stato?La risposta paradossale all'esito giudiziario è:nessuno, è Stato.

domenica 5 febbraio 2012

La domanda è: are they really bastard?

Cominciamo dalla fine, anzi no, cominciamo da una domanda:are bastard? Forse sì. Ma non All Cops ovviamente. Eppure il film ha un freno inibitore che lo rende monco, e che si respira soprattutto nella seconda parte, come se il regista non avesse voluto affondare il piede sull’acceleratore, mancata audacia, pudore perbenista, o dovuto contenimento? Forse tutti e tre. Violento sì ma con cautela, e quel senso di rimorso che ogni tanto emerge nel Cobra (interpretato dal bravissimo PierFrancesco Favino), sembra volere indurti alla compassione. Contraddittorio, ma l’effetto è chiaramente voluto, subdolo è la nota di fondo che arriva alla fine dell’ultima staffa. Subdolo perché dentro c’è un bel pout pourri di temi sociali qualunquisti, di quelli buoni a scatenare le folle inferocite, una pasta di luoghi comuni spacciati per grandi verità sommesse.

Represse scintille di razzismo individuale che nascondiamo tra le nostre paure, e che prendono fuoco non appena l’ingiustizia mette piede a casa tua. A quel punto lo straniero è più straniero di prima, e scatta quel senso becero di prevaricazione capace di ammantarsi del più bieco nazionalismo che prende forma anche con un certo imperante orgoglio. E diventa un mantra, un coro, un’imposizione: “questa è casa nostra, questa è casa NOSTRA!”. Gli scontri con gli ultrà allo stadio, violenza contro violenza, l’uccisione del giovane ispettore Raciti che monta la rabbia, lo stupro della Reggiani commesso da un rumeno, un gruppo d’immigrati che bivacca in un parco, l’ingiustizia subita da un padre separato che non può vedere la figlia, gli eccessi che si dovrebbero pagare sul banco degli imputati ma che alla fine vengono sanati dall’autoassoluzione che lo Stato fa a se stesso. L’iniziazione del giovane celerino, che non comprende come il cameratismo sia una forma di eccitazione superba, un delirio collettivo di onnipotenza che non puoi rifiutare dal quale hai quasi il dovere di lasciarti sedurre per battesimo e fratellanza. Tutte fotografie di un Paese corrotto a sua insaputa, raggirato, vittima di se stesso dove si elude la legge, dove la legge elude la legge perché la rappresenta in carne ossa e distintivo e può farlo.

“Tu giochi alla guerra!” è l’insulto che arriva a un padre dal figlio ribelle e invasato dai finti ideali di un centro sociale di destra, è la verità sbattuta sul tavolo come un pezzo di carne cruda e sanguinante, e la risposta è ovviamente urlata a petto infuori, è la strada che ti costringe a farlo è il dovere, è quel mestiere di merda che ti fa portare a casa lo stipendio: “lo faccio anche per te!”. Solo che l’eroismo urlato, finisce affogato attonito e miserevolmente nudo nella mattanza punitiva, commessa in quel centro sociale dove il figlio sorprende il padre a giocare alla guerra, metafora di una Diaz dove di figli ce n’erano parecchi, dove l’onta insegue ancora il peccato ma il peccato, in chi si crede eroe e giustiziere è amnistia. A.c.a.b. fa leva sugli istinti più bassi e reconditi del proprio ego, emulazione, paura, la sottile seduzione della violenza e infine l’espiazione che non arriva, rimane chiusa lì, nel nome di una piazza che rievoca un delitto, ma non è sempre vero che in nomen omen, come non è sempre vero che legge fa il paio con giustizia.

E per finire una domanda: che fine ha fatto il finale?