Pensiero del giorno

•‎In un momento della vita, al momento giusto, bisogna poter credere all'impossibile Christa T. - di Christa Wolf

mercoledì 26 ottobre 2011

Palermo-Cefalù On Air A/R

“On-Air, che non significa “nta ll’aria”, potrebbe essere il titolo e il filo conduttore, di queste poche ma intense giornate in terra sicula. La battuta è copiata, e il copyright è della Blandeburgo (al secolo Stefania Blandeburgo), come la chiama la mia amica Giusi. La Blandenburgo è una stimata attrice di teatro, che conduce un divertente programma radiofonico, e in radio si sa, o sei On-Air o sei Off, un po’come nella vita.

Atterriamo a Palermo intorno all’ora di pranzo, nell’atterraggio sbircio il mare dal finestrino e quando esco fuori dall’aereoporto la luce chiara e calda dell’autunno siciliano mi apre il cuore. Nel tragitto che ci porta a Palermo, mentre andiamo incontro alla Conca d’Oro che abbraccia la città, e te la rivela appena ci entri dentro, ascolto distratta le chiacchere tra due amici siculi che si ritrovano dopo tanto tempo, intanto, fotografo con gli occhi, ogni angolo di cielo di questo scorcio d’isola. Fa caldo è una magnifica giornata d’autunno, e qui il sole t’illumina dentro, ti fa stare bene, e il tuo umore si allarga improvvisamente in un sorriso. Non ci tornavo da 5 anni, la prima volta la vidi in una calda notte d’estate, e già allora Palermo mi aveva sedotta, la ritrovo di giorno, in una stagione che le sta addosso come lo zucchero sui panuzzi.

Questa volta però, conto di vederla attraverso uno sguardo più profondo, quello di chi le appartiene, una palermitana d’eccezione,che di Palermo ha scritto tanto da lasciarci tra le dita, ancora il profumo di pagine unte di sole, gustose ricette siciliane, vortici familiari, passioni laceranti, addii e ritorni Almodovariani. Quando mi ha chiesto di accompagnarla a Palermo non ci ho pensato due volte, perché mi andava di tornarci da tempo, e dopo aver letto i suoi libri ancora di più. Sono sempre stata convinta che i viaggi come i libri, vengano a trovarti come i desideri, arrivano quando è il momento. E dunque eccoci qui, io che sono da anni un’eoliana d’adozione, ora mi lascio adottare anche da questa città, che ti si rivela come un’aristocratica e vecchia signora d’altri tempi. Lascio Giusi alle sue interviste, e nel pomeriggio assolato mi lascio condurre dalla mia pazza amica Monica, in giro in motorino per la città. Lo sguardo a perdere tra Piazza della Vergogna (con le sue statue tutte nude), il teatro Massimo maestoso e assolato, i Quattro Canti, una passeggiata alla Cala sul mare, tra le barche del porto turistico e una visita alla cattedrale dove è sepolto Federico II, colui che portò il sud a essere definito il Regno del Sole.

Il pranzo che ve lo dico a fare..involtini di pasta alle melanzane, sotto il sole ovviamente. Ho ancora l’eco nelle orecchie delle chiacchere di Monica e di quella parlata musicale, che usa il passato remoto e i verbi più di quanto lo si faccia normalmente, e penso: ma i siciliani non possono avere problemi con il congiuntivo tutt’al più con il futuro! Il tramonto mi porta a Cefalù, dove decidiamo di trasferirci per respirare l’odore del mare all’ora di cena. Superiamo Termini Imerese e le sue fabbriche con i coni di fumo lungo la costa, non puoi fare a meno di pensare a tutte le rivendicazioni operaie, alle loro speranze e paure. Attraversiamo un paesaggio a macchia mediterranea pieno di fichi d’india ricchi di frutti, ingoiati da un fascio di luce gialla avvolgente e ipnotica.

Ed eccoci nei luoghi di Manna e miele ferro e fuoco, approdiamo a Villa Romilda ospiti del “barone” Francesco. Appena sveglia con il mio solito calo ipoglicemico mi fiondo a fare colazione, e mi incanto alla vista di Cefalù dall’alto, il mare è fermo, il cielo è limpido, mi viene voglia di andare a fare un tuffo in quel blu, anche se è mattino presto e il sole non brucia. L’incanto si ripete sulla piazza principale del paese, dove io e la Torregrossa ci sediamo a godere di sole e caffè litigando per chi va a giocare la schedina al tabaccaio di fronte, mentre l’altra paga il conto, (tra meridionali sfilare lo scontrino dal tavolo senza che l’altro se ne accorga è una sfida incomprensibile per lo più, a chi è nato da Roma in su).

Da calabrese però, io ho sempre un po’ invidiato la capacità dei siculi di ammaliare il turista anche solo parlando, la Sicilia è una finestra sempre aperta sul mediterraneo e la respiri in tutta la sua ricchezza. Lascio la Sicilia (con l’idea di ritornarci presto) e fuori quella mattina piove, ma mi fa sorridere ancora tutta la luce che ho respirato, e mi fa sorridere pure la dissertazione idiomatica tra loti e cachi. Come tutto il resto, frame di un giornata vissuta su un set, con l’odore delle melanzane fritte da Rosa in cucina, e quello del miele che mi passava sotto il naso…

lunedì 24 ottobre 2011

"E a me, il sushi, non basta più." Lettera aperta ai creativi e ai lavoratori della mente.

Cari creativi,

vi chiedo di leggere questo post. Ci metterete 5’. Parla di voi. Dopo, sarete un po’ incazzati. Forse, più motivati. Magari saprete cosa fare. Altrimenti, postate una canzone.

Ora passo al tu. Se appartieni al 94% di chi “non” possiede o dirige un’azienda di successo, con i riconoscimenti che ne derivano, contratti o dividendi, prendi un foglio di carta e scrivi su quali forme di tutela puoi contare. Fatto?

Che prospettive ritieni di potere avere, superati i 50 anni, se non dovessi divenire titolare, dirigente, star acclamata? E se ti trovassi nella condizione di doverti ri-immettere sul mercato?

Oggi, su quali garanzie puoi contare sotto il profilo sanitario, pensionistico, in caso di malattia, disoccupazione, maternità Se invece sei un libero professionista o un free lance, che tutele hai su pagamenti e tempi? Quali spese scarichi? E gli utili corrispondono agli studi di settore?

Se hai un contratto a progetto, a chi ti puoi rivolgere per mutui o finanziamenti?

Se stai iniziando ora, quali aiuti hai ricevuto per lo start up?

E, infine, se hai un’idea innovativa, chi è pronto ad ascoltarti? Che strumenti hai per proteggerla?

Ma soprattutto, chi riconosce il tuo valore, e ti considera una forza importante e strategica? Chi ci rappresenta? Quale corrispondenza esiste tra le nostre idee, la nostra visione del mondo e delle cose, l’amore per il bello in tutte le sue forme, e il sistema Paese?

Se, al contrario, appartieni a quel 6% che ottiene onori e premi, chiediti quanto sei veramente tutelato, e se non hai anche tu, stampigliata da qualche parte, la data di scadenza. Cosa succede se un fondo ti acquisisce e decide che non sei performante? Se litighi con soci, se soffri di ansia da prestazione, se il tuo mercato viene travolto dalla crisi, se improvvisamente ti pesa fare l’ennesima notte? Ma soprattutto, chiediti cosa puoi fare tu per il 94% di talenti che, meno di te, hanno ottenuto visibilità, guadagni, opportunità.

In Italia non esistono cifre che dicano quanti siano i professionisti che svolgono attività finalizzate alla creatività. I “creativi”, semplicemente, non esistono.

Eppure siamo quelli che costruiamo, ogni giorno, l’immagine della filiera industriale e commerciale, in alcuni casi, sogni e tendenze. Quelli che progettano le piattaforme dove ci si confronta. Che creano stili, storie e visioni da condividere. Disegnano il presente.

Io ritengo che in Italia siano più di 2 milioni le persone che vivono delle proprie capacità creative. Il doppio se si considerano ambienti di riferimento e indotti.

Non siamo identificati, rappresentati, tutelati, rispettati, valorizzati. Facciamo un lavoro logorante, che spesso riduce la capacità competitiva con l’avanzare degli anni. Prigionieri di stereotipi che ci vedono modaioli e svagati, con il bigliardino all’ingresso e il lupetto nero, sempre alle prese con cose divertenti. In realtà protagonisti di quella fuga di cervelli che porta i più intraprendenti di noi ad andare all’estero per poter vivere e realizzare le proprie idee.

Facciamo un lavoro anonimo. Senza diritto d’autore, con ritmi superiori a qualsiasi regime contrattuale, disposti a lavorare di notte e nei festivi, sulla scia di quell’entusiasmo e disponibilità che è insita nel nostro lavoro, al quale non potremmo rinunciare, ma che diviene regola in luogo di eccezione. Ma non siamo missionari e non stiamo salvando la vita a dei bambini. Siamo solo uno strumento del sistema industriale. Lavoratori dell’immateriale, braccianti della mente.

Eppure, insieme alla ricerca tecnologica, rappresentiamo l’identità storica della nazione, il made in Italy, quello che ancora ci garantisce un briciolo di credibilità nel mondo.

Ci confrontiamo e diamo voce alle culture giovanili e riformiste, invisibili e marginali per i media e il potere quanto lo siamo noi. Sperimentiamo tecnologie e linguaggi.

Pensiamo internazionale.

Siamo quelli che hanno contribuito alla creazione della cultura web e social, della quale conosciamo, più di tutti, dinamiche, linguaggi e modalità. Ma non siamo mai coinvolti nelle scelte e nelle soluzioni. Mai consultati, mai coinvolti nei processi decisionali sui grandi temi di questa società. Che rinuncia, di fatto, a valorizzare uno straordinario capitale di energia e innovazione.

Mi spiace dirlo, ma le associazioni di categoria in questo momento non hanno più senso. Così come il parlare di pubblicitari, grafici, architetti, e di mille altre piccole nicchie. Sono finite le corporazioni. Potranno essere utili solo dopo, per specifiche esigenze di settore, per l’aggiornamento professionale e il confronto tecnico. E poi, basta.

Non ci sono creativi fighi e creativi di serie B. O lo sei, o non lo sei.

Il cambiamento che vi propongo è di mentalità e di visione.

Siamo e siete un’unica entità, qualunque cosa facciate: creativi per pubblicità e eventi, copy, art, graphic & industrial designer, visualizer, web. Ma anche artisti, autori, stilisti, scenografi, light designer, montatori, sceneggiatori, story editor, coreografi, registi, fotografi, progettisti, blogger, compositori, video maker, illustratori, costumisti, direttori artistici, curatori, artigiani di ricerca, traduttori, ghost writer… Nelle grandi città, come in provincia, dove maggiori sono le difficoltà.

Occorre spostare il livello di percezione/visibilità. Piantarla di fare gli individualisti. Divenire massa critica, movimento di opinione, influencer. Smettere di pensare all’orticello per acquisire quella che il buon Pasolini chiamava “coscienza di classe”.

Se il mondo non ci considera, usiamo le metodologie che il mondo comprende.

• Diventiamo lobby

• Impostiamo una rivendicazione sindacale (sì, avete letto bene)

• E quindi, diveniamo Gruppo di Pressione.

Anche in un momento di crisi, che potrebbe far sembrare irrealizzabili e utopiche queste istanze. Perché è quando si è in curva che occorre spingere sull’acceleratore.

Primo passo, renderci visibili, sollevando il problema. Al pari di quanto hanno fatto pochi anni fa i nostri colleghi sceneggiatori americani.

Blocchiamo il giocattolo.

Occupiamo la rete. Facciamoci vedere. Anche nelle strade. Senza sentirci obbligati a dover, per forza, fare manifestazioni fighe e creative. Poi, diveniamo piattaforma.

Cosa chiedere? Di ascoltarci. Di avere, in questo paese, un ruolo consultivo e decisionale. Ma anche ciò che hanno ottenuto tante altre categorie che, nella storia, prima di noi, hanno affermato in maniera organica i propri diritti:

1 - Tutela dei più giovani, con contratti a progetto e stipendi che assomigliano al conto di un ristorante. Regolazione del sistema stage e incentivi per chi assume. Finanziamenti o prestito d’onore per attrezzature e alta formazione

2 - Garanzia di tempi e modalità di pagamento per professionisti esterni e free lance. Con possibilità di accedere in maniera diretta a un collegio arbitrale per la risoluzione di problematiche professionali

3 - Istituzione di un Fondo di Solidarietà, pagato contestualmente alla prestazione d’opera, o inserito direttamente nel contratto. Destinato ad aiutare chi si trova a vivere momenti di difficoltà, per maternità, problemi di salute, disoccupazione. Con tassi agevolati per mutui e fidi

4 - Diritto d’autore per nuove categorie o forme espressive, per ridurre una disparità di trattamento non più giustificabile. Anche alla luce della recente sentenza Bertotti contro Fiat.

5 - Adeguamento legislativo del concetto di "idea", oggi del tutto privo di rilevanza e tutela giuridica.

6 - Nel caso di partita IVA, iscrizione in categoria separata, con imposta calcolata al 75%, come avviene nell’ambito della cessione dei diritti. O inserimento delle categorie nella gestione Enpals, inserendo il concetto del "collocamento"

7- Facilities per l’aggiornamento professionale, per il consumo di beni culturali e soggiorni all’estero, elementi ala base del nostro lavoro

Diritti, si badi bene, che non devono essere appannaggio del soggetto singolo, ma anche di aziende e studi professionali che pongono la creatività come core business. Questo non vuol dire, quindi, lotta tra poveri, in un momento di grave congiuntura, ma condivisione di opportunità:

1 - Regolazione del sistema gare e riconoscimento della “creatività” all’interno del formulari di gara

2 - Diritto a poter scaricare le spese effettuate dalle aziende per ricerca, sperimentazione, nuove tecnologie. E incentivi per stage, apprendistato, assunzioni, contratti nell’area creativa

3 - Riduzione fiscali e incentivi in caso di start-up, con particolare attenzione nei confronti di under 30, factory, realtà collettive, in un contesto che valorizzi 3 assi portanti: creatività, ricerca tecnologica, arti

4 - Attivazione di ammortizzatori anche per quelle aziende che non raggiungono i minimali previsti per accedere a cassa integrazione o mobilità

Ho finito. E, detto tra noi, non avrei mai pensato di dover scrivere un giorno un testo simile a un vecchio volantino sindacale o a una predica mormonica. Ma così è. Con la netta sensazione che il social, pensato per unire teste e mondi, possa servire a qualcosa di più che postare una canzone.

In questo percorso illuminante il dialogo che gli sceneggiatori di un piccolo film “Generazione 1000 euro” ha messo in bocca a due amici, perennemente stagisti. “Questa è l’unica epoca in cui i figli stanno peggio dei padri….” è il commento di Matteo quando apprende che un suo coetaneo disoccupato lascia Milano per tornare dai genitori: “E qual è la nostra risposta? Mangiare Sushi.”

E a me, il sushi, non basta più.

Alfredo Accatino

martedì 18 ottobre 2011

Mara Sartore: «si può campare di cultura poi magari non basta fare un festival solo»

Giovanissima decide di lasciare l’estero per ritornare in Italia, e in direzione ostinata e contraria fonda insieme ad altri “artecolici” come lei, un festival di corti, Circuito Off, che si svolge contemporaneamente alla celebre Mostra del cinema di Venezia, nella città del Doge appunto. È passato oltre un decennio dalla prima edizione, segno di una ostinata resistenza culturale, ma anche forse, segno che se provi a piantare una buona idea, qualche volta può anche crescere. E forse è vero, questo “Non è un paese per vecchi”.

Creare un modello culturale come Circuito Off facendolo crescere, resistendo nel tempo, in Italia, di questi tempi, è una prova da sopravvissuti. Cosa consiglierebbe a dei giovani con i suoi stessi interessi?

R.: É una domanda difficile devo dire, perché non so se esista una ricetta non so se esista un consiglio valido efficace, certamente scegliere di restare in Italia e fare le cose è secondo me prendere una posizione. Diciamo che nel mio caso specifico, io sono addirittura tornata in Italia perché vivevo all’estero dove ho studiato e ho lavorato per un lungo periodo. Io credo che bisogna essere capaci di avere un pensiero positivo e di credere molto fermamente in quello che si fa pensando di superare tutti gli ostacoli. Sicuramente questo è un atteggiamento che non viene molto stimolato, nel senso che in Italia c’è una tendenza a compiangersi e sottolineare soprattutto i difetti del Paese. Un atteggiamento che sicuramente viene marcato dai media soprattutto quelli culturalmente schierati a sinistra, anche per insoddisfazione verso questo governo, ma che purtroppo non va a stimolare una fiducia e senza fiducia è difficile fare qualunque cosa. Quello che io penso è che le situazioni difficili dovrebbero essere di stimolo senza farsi prendere dallo sconforto ancora prima d’iniziare.



L’Italia è un fiorire di rassegne e festival, dalla letteratura al cinema al jazz, ma nonostante questo non si respira un gran fermento culturale in questo paese. Da cosa dipende?

R.: Io devo dire che ho molta fiducia nei giovani italiani, credo che il fatto che continuino a proliferare dei festival nonostante la crisi nonostante i tagli, sia una testimonianza ottima del fatto che la gente non guarda più la Tv ma si riunisce in associazioni, parla delle cose e ha voglia di esprimersi. Magari non sceglie il solito canale politico ma sceglie anche quello culturale per cambiare le cose. Quindi credo molto in una cultura underground sotterranea sommersa, molto attiva, e credo che in questo momento quello che c’è di stallo vero è il vertice, cioè chi sta al governo chi sta al potere è in stallo non ha capacità di legiferare in maniera creativa o costruttiva, non ha capacità di rinnovarsi o di svecchiarsi. Io credo che alla base in Italia ci sia una voglia di fare, un proliferare di cose molto molto interessanti. Certo c’è anche un forte incrementarsi di giovani che continuano ad emigrare ad andare via, a vivere in altri paesi, però c’è anche una parte di quelli che rimangono che comunque continuano a fare delle cose. Quindi credo che sia una questione di tempo.


Cosa l’ha spinta a tornare in Italia?

R.: Quello che mi ha spinto fortemente a tornare è proprio quello di dire: in Italia comunque mancano delle cose, bisogna farle. Credo che questo sommerso sia solo una questione di tempo ma emergerà, non credo che gli italiani siano un popolo di rivoluzionari però, penso che nella storia quando c’è stato il momento si sono sempre fatti sentire, quindi mi auguro che sia ancora così, che la nostra voce non si spenga e la nostra energia neppure insomma.


Al festival di Venezia per i registi italiani da tempo oramai, è difficile essere profeti in patria. Negli ultimi anni la colpa veniva data al cinema italiano, è ancora così?

R.: Ma sa le vittorie poi contano secondo me il giusto, cioè io non guardo mai chi vince i festival, guardo chi c’è in programma, e negli ultimi anni con Controcampo italiano i film italiani ci sono e sono parecchi. Le giurie poi hanno un giudizio insindacabile e sono molto soggettivi rispetto a chi le va a comporre. Non credo che Venezia sia più un festival suo malgrado legato alle dinamiche della distribuzione, e dico purtroppo, perché il mercato è molto importante per la cultura, per il cinema, per tutto, perché appunto non si vive d’aria, e non esistono soltanto dei circuiti di mecenatismo. Bisogna anche che il pubblico apprezzi veda ecc. ma purtroppo Venezia non è più legata a dinamiche di mercato.

Il cortometraggio è se vogliamo una forma di espressione cinematografica democratica, spesso low cost, di sperimentazione artistica, e di iniziazione. Quanto spazio dà il mercato a questo genere di prodotto e quali le differenze con il lungometraggio?

R.: Prima di tutto per me parlare di cortometraggio è qualcosa di assolutamente anacronistico, nel senso che comunque il cortometraggio è un genere superato, e dirlo io che faccio un festival di cortometraggio da oltre 10 anni sembrerebbe un paradosso. Innanzitutto non ha nessuna senso paragonarlo al lungometraggio, il mondo del cinema vive su delle dinamiche e delle regole completamente separate. Il mondo dei video è un mondo vastissimo, ed è un mondo che ha un mercato suo totalmente diverso e slegato al mondo del cinema, non ha nessuna dinamica di sala, non ha gli stessi luoghi e non vive delle stesse regole. Il mondo del video è vastissimo, dai videoclip ai viral, i registi con i quali abbiamo inaugurato quest’anno Circuito Off che sono il turco Can Evgin e il francese Simon Cahn sono l’esempio perfetto di due giovanissimi registi, che vivono del loro lavoro e lavorano appunto non necessariamente facendo pubblicità. Il video che abbiamo mostrato commissionati da D&G, piuttosto che da Louis Vuitton sono dei video che sono delle opere d’arte. Sono dei video che sono stati commissionati da grandi firme per trasmettere in qualche modo la loro immagine, ma affidati a degli artisti e così i videoclip.

Youtube e i social network sono diventati il luogo ideale di diffusione dei corti, anzi, potremmo dire che grazie a FB molti hanno scoperto la letteratura e anche il cinema. Ma cosa occorre fare per non rimanere ghettizzati nel circuito dei festival e delle rassegne?

R.: Sicuramente, forse più che Yuotube che è molto generalista, un sito di riferimento per questa community è Vimeo, dove si possono scoprire dei talenti molto interessanti. Trovo che internet sia ancora uno dei pochi mezzi, nonostante cerchino di minarlo, veramente democratici. Io credo che questi prodotti non passano per le sale perché non nascono per le sale, ho assistito a duecento milioni di convegni su questa questione del futuro del cortometraggio, e sul mercato che non c’è, ma perché non c’è ed è inutile cercare qualcosa che non esiste. Cioè, il corto è un genere di tutto rispetto, però è molto evidente quando un regista fa un cortometraggio perché poi aspira a diventare un regista di lunghi metraggi, e quando un regista fa dei corti perché il la sua forma d’espressione da creativo è quella dei video, sono due cose diverse. E il mondo di cui noi cercheremo sempre di più di occuparci è quello del video, che un mondo come dicevo prima assolutamente slegato dal cinema, e che non ha neanche l’ambizione di arrivare al mondo cinematografico. Il video nasce proprio su altri canali e nasce prevalentemente per questi canali. Sono molto importanti gli eventi legati al video perché in questi eventi non solo circolano le opere ma la maggior parte dei video nascono e quando arrivano a un festival non ci vanno per iniziare la loro vita, molto spesso i video quando arrivano ai festival l’hanno già finita la loro vita è un punto di arrivo non d’inizio e questa è la cosa fondamentalmente diversa con il cinema.

Che rapporto c’è tra la grande kermesse della Mostra del cinema di Venezia e Circuito Off, di complementarità, di contrapposizione o cosa?

R.: Di contrapposizione non direi assolutamente, ci sono stati in passato dei momenti di collaborazione molto interessanti con Marco Müller, che è un direttore che io stimo moltissimo, che ha fatto un lavoro ottimo in questi ultimi anni a Venezia, portando la Mostra ad essere un festival di grande qualità. Siamo un evento che accade in contemporanea alla Mostra sicuramente, c’è questa contemporaneità, Circuito Off è nato per dei motivi ed evolvendo ne ha avuti degli altri, oggi continua per abitudine forse. Mentre quando Circuito Off è nato, è nato proprio come un evento in contemporanea alla Mostra del cinema, per essere vetrina dei giovani talenti, questa scissione, che oggi è sempre più forte a mio avviso, tra il nostro occuparci di video e in nessun modo di cinema, ci fa essere qualcos’altro insomma, quindi questa contemporaneità non è detto che continui. È nato con delle ragioni che sono cambiate nel tempo e che oggi forse non sono più così vere non lo so. Sicuramente non c’è contrapposizione con la Mostra, la complementarità bisognerebbe trovarla assieme forse.

I prossimi passi in avanti di Circuito Off? Progetti, evoluzione e obiettivi.

R.: Sicuramente quella che è l’identità che sempre più si sta marcando è quella di volersi occupare sempre più di video e non di cinema, il video non è cinema, forse il cinema diventerà sempre più video ma questo se lo devono chiedere quelli che fanno cinema non lo so. E quindi sì, forse c’è una riflessione anche sul nostro titolo che è Venice International Short Film Festival che forse andremo a cambiare. Stiamo sicuramente meditando su quella che è la definizione di cortometraggio e sul fatto che sia sempre più inadeguato a quello di cui ci occupiamo noi. Quindi c’è un problema lessicale, nel senso che l’unica parola che io posso usare per descrivere quello che noi facciamo è video.

Dopo 12 anni, siete diventati una vera avanguardia anche di tendenza. Rischiate di scivolare un po’ troppo nel patinato, perdendo forse un po’ di quella connotazione “Off” che vi ha caratterizzati…

R.: Il fatto che la stampa si accorga di noi, il fatto di essere arrivati comunque ai magazine femminili e maschili, forse era anche ora che si accorgessero che facciamo delle cose. Patinati non credo perché è un evento assolutamente informale rispetto anche al clima che si respira alla mostra del cinema, che ha un clima da red carpet. Non direi che questa sia l’atmosfera che si respira a Circuito Off in nessun momento, neanche diciamo nei momenti da cerimonia, l’apertura o chiusura molto spesso è informale. È un festival che nasce perché le persone si incontrino fra di loro, passino delle giornate a vedere dei video a studiare delle idee a conoscersi con molti ospiti internazionali che s’incontrano o si ritrovano.

A conti fatti l’avventura di pochi giovani ragazzi, parafrasando Battisti è diventata una storia sera. Di cultura quindi si può campare?

R.: Noi non viviamo solo di Circuito Off per nostra fortuna, perché siamo un gruppo di gente che poi comincia ad essere non così tanto giovane insomma, quando si è tanto giovani si hanno delle esigenze, poi quando si cresce se ne hanno delle altre. Però si possono fare tanti progetti, noi campiamo di cultura ma facciamo più cose. Diciamo che la risposta è sì, si può campare di cultura poi magari non basta fare un festival solo.

Manuela Caserta

lunedì 10 ottobre 2011

"Io sono lì" fuga e perdita di un'identità...

Per celebrare il poeta cinese Qu Yuan (III sec. a.C.) secondo la tradizione popolare, si accendono delle piccole lanterne rosse che si lasciano galleggiare cullate dall’acqua. L’acqua è il simbolo del fiume Milou, dove il poeta si gettò legandosi a una pietra, quando decise di suicidarsi. La sua gente tentò disperatamente di salvarlo, cercandolo a lungo nel fiume a bordo delle cosiddette barche drago, gettando riso ai pesci per tenerli distanti dal suo corpo, ma non ci fu niente da fare. Si disse poi che il poeta morì a causa di un drago del fiume. Io sono lì comincia così, con la celebrazione di un’antica tradizione popolare cinese, nell’acqua di una vasca da bagno, lontano da fiumi e terra d’origine. Shun-Li è il nome di Zhao Tao la bravissima protagonista del film, emigrata in Italia pagando un debito da estinguere lavorando, alla mafia cinese, e lasciando il cuore in Cina dove ha dovuto lasciare anche il figlio insieme al padre. Storia di emigrazione, ambientato tra Roma e Chioggia, dove Li verrà spedita a lavorare. Le atmosfere neorealiste lagunari incupiscono il film, avvolgendolo in una malinconia invernale che solo una sceneggiatura (regia e sceneggiatura di Andrea Segre, co-sceneggiatore Marco Pettenello) ben fatta, è capace di mitigare strappandoti dalla fuga. La poesia è il mood in sottofondo del film, che arriva dall’acqua, da quella laguna che Shun-Li definisce in una lettera al figlio, una donna calma e misteriosa. Filtra la luce calda del tramonto, che passa attraverso gli sguardi dei due protagonisti del film, entrambi stranieri entrambi senza più radici. L’umorismo dei pescatori che si ritrovano puntualmente al bar, è la pantomima della finta accoglienza riservata allo straniero. Va tutto bene, fino a quando lo straniero non sconfina nella tua quotidianità, a piccoli e timorosi passi. Così, quando nasce una tenera amicizia tra Li e Bepi il poeta pescatore della laguna, gli amici di sempre seminano diffidenza e razzismo, trincerandosi nella cultura del sospetto. Le atmosfere mi hanno ricordato un’altra bellissima opera prima, Dieci inverni di Valerio Mieli. Io sono lì è titolo e significato dell’intero film, racconta il silenzioso dolore che vive nelle vite in fuga di interi popoli, la dissociazione e l’automatismo con i quali si ripetono giorni uguali a se stessi, tutto finalizzato ad affrancarsi da un debito di libertà. Pochi giorni fa si è celebrato il 62esimo anniversario dalla nascita della repubblica popolare cinese, e una gigante lanterna rossa alta 15 metri e larga 50 è stata allestita in piazza Tienanmen, la stessa piazza simbolo della violenta repressione del 1989. Un film esile che tocca delicatamente note profonde, dove emerge la fotografia di un pezzo di bel Paese eternamente in attesa, triste, vecchio e ignorante.
Un Paese dove la poesia non basta più…

Manuela Caserta