Pensiero del giorno

•‎In un momento della vita, al momento giusto, bisogna poter credere all'impossibile Christa T. - di Christa Wolf

giovedì 15 dicembre 2011

Al Valle Danilo Rea e il jazz sui tetti di Roma. Ma il teatro?

Le terrazze romane si sa incantano anche il cielo, e sotto il cielo di Roma, sui tetti del quartiere Monti, ad inizio estate in una calda giornata di metà giugno, succede che venga portato su a spalla, per le scale di un palazzo antico di via Panisperna, uno Steinway & Sons a coda. Che poi, appena si avvicina la sera quando il cielo si fa rosa e le terrazze romane si riempiono di fiaccole, comincino a diffondersi le note di una jam session composta da Danilo Rea al pianoforte, Paolo Damiani al violoncello e Rashmi Batth alle percussioni, concerto organizzato da Emergency per una raccolta fondi interamente devoluta in beneficienza.

Nasce così il film-concerto Sotto il cielo di Roma- Note dal tetto live concert con la regia di Lorenzo Conte, che fra qualche giorno verrà venduto in allegato a L’Espresso. La scorsa sera al Valle, la serata si è aperta con un breve tributo al premio Ubu, vinto per la prima volta nella storia di uno dei premi più prestigiosi per il teatro, da un teatro occupato (ma il Valle aveva già incassato il premio Salvatore Randone) ed è poi proseguita con la proiezione del live sui tetti del quartiere Monti. Suggestivo e avvolgente lo spettacolo offerto gratuitamente da uno dei performer di jazz più importanti sulla scena nazionale, che alla fine della proiezione ha continuato a suonare dal vivo.
Il Valle continua a coinvolgere la cittadinanza in una permanente assemblea culturale, è una realtà di eccezionale fermento in una città come Roma, ma è un’occupazione che ha preso le forme di una gestione permanente. La domanda è: fino a quando gli occupanti, i teatranti, gli operatori dello spettacolo, le maestranze di un nobile storico e prestigioso teatro come il Valle, potranno andare avanti con il piattino in mano?
Qualche tempo fa, in un incontro organizzato con Dario Fo e Franca Rame, diventato un lungo dibattito con la platea, i due attori sottolinearono come anche nel corso delle loro esperienze d’occupazione durante gli anni 70, gli spazi occupati diventavano luogo simbolo di comunità, di condivisione, spazio culturale politico. Ma mai si prescindeva dal rispetto per il lavoro che stava dietro lo spettacolo gratuitamente offerto, e questo voleva dire farsi comunque sempre pagare il biglietto. Simbolicamente, senza giungere a stabilire un costo eccessivo, ma senza piattino in mano. Evitando così di trasformare sempre tutto, anche il lavoro generosamente offerto da professionisti di livello, in assemblee di transito.

Mi chiedo, perché al Valle non è stata ancora mai messa in scena una piece teatrale vera e propria? Quale spazio migliore di un teatro occupato da offrire alla creatività di giovani registi e giovani attori. Fu questa, un tempo, la funzione dei teatri stabili, che poi si perse nel tempo anche e soprattutto per mancanza di fondi alla cultura, ma il Valle è un esempio di rivoluzione culturale come non se ne vedevano da secoli in Italia. Questa occupazione ha sparso tra la gente la voglia di frequentare il teatro, la fruibilità di un certo tipo di cultura, ma ora che il messaggio è stato recepito, occorre riportare il teatro in teatro. Gli occupanti hanno dimostrato di sapere gestire il teatro mantenendolo dignitosamente, ma su quelle tavole manca il rumore dei passi battuti dai teatranti. Comincia a farsi strada la necessità di uno scatto di reni ulteriore, una rassegna, una programmazione teatrale vera, che capovolga il concetto precario di occupazione inglobandolo, facendolo diventare finalmente una realtà virtuosa stabile.

Manuela Caserta

giovedì 1 dicembre 2011

Lucio Magri: Se solo si potesse morire come ci pare...

Non si può scrivere di Lucio Magri, solo cominciando della fine, da quel gesto squarciante e autoreferenziale che è l’eutanasia volontaria. Non è stata fuga, ma semplicemente abbandono, e ciascuno sarà pur libero di scegliere come uscire di scena senza per forza farsi paladino di un diritto sociale per tutti, senza per forza coinvolgere l’ordine morale, fare appello ai laici, farsi accendere un riflettore addosso mentre rifuggi da qualsiasi luce. Senza per forza esser giudicato nelle proprie possibilità, che siano anche solo quelle di potersi permettere un biglietto di sola andata in un Paese neutro, senza Vaticano, moralisti, finti rivoluzionari e liberisti. Neutro come la nebbia, che avvolge tutto anche una vita intera.

Sì, è un diritto poter scegliere come morire, ma non è un diritto sindacare la morte ogni volta, come se la vita degli altri ci appartenesse per status quo. Non ci apparteneva giudicare della Englaro, non ci apparteneva giudicare di Welby e non ci apparteneva giudicare di Monicelli. Che ne sappiamo noi del dolore che squarcia una persona, della sua solitudine, e la nostra attenzione sull’ultimo atto compiuto, su quella improvvisa assenza, certo non è struggimento no. Non illudetevi. E’ spesso solamente vorace voyeurismo, sensazionalismo evocato da qualche titolo di giornale. E a volte, solo a volte, è anche riflessione su quell’esistenza. Magri è scomparso da due giorni, e sappiamo di lui ciò che fu, quali atti di rottura verso un sistema che non condivideva fece quando si conquistò la definizione di eretico comunista. Ed “eretico” è stato anche il suo ultimo gesto, eretico visto con gli occhi di una società che non è riuscito a cambiare, ma per la quale la sua pervicace volontà intellettuale ha lavorato a mani nude. Discutiamo se vi pare, di come si debba vivere e lottare verso lo Stato, la nostra ideologia, i poteri forti e anche la malattia, ma quando questa cresce lentamente su un’assenza..c’è poco per cui lottare, non esistono nemici o rivali, c’è il vuoto soltanto. Lucio Magri aveva perso il suo alterego e la sua ragione di vita, che non era la libertà di cui si è vestito fino alla fine, non era una battaglia sociale, era semplicemente la sua compagna di vita, che senza invocare alcun romanticismo di sorta né il suo contrario per bandire sia ogni forma di stucchevole commozione, che di cinica derisione, era ciò che evidentemente gli aveva dato un senso.

Fondatore del Manifesto, scrittore, giornalista spina nel fianco di quel PCI degli anni 60/70, che di comunista aveva il nome e poi le velleità. Dentro il quale brulicavano intellettuali, militanti, sanguisughe, giovani citazionisti, futuri strateghi dei fallimenti della sinistra, e dirigenti che conoscevano bene la liturgia dell’obbedienza e della reminiscenza, oltre che la cosiddetta terza via. Spesso ancora oggi si vuol far passare per ragion di Stato ciò che è solo sapone caustico della propria coscienza. Così lo fu allora, quando la Cecoslovacchia venne invasa, violentando la natura del vero sogno socialista. E lì chi ci credeva divenne eretico, per colpa di un diktat, “eretico”, una parola che a pensarci bene nella storia ha sempre avuto il sapore vero della libertà. È quasi d’obbligo per molti giornalisti, colleghi e amici di Magri scrivere di lui, di questo estremo gesto. Come lo fu per Monicelli, che tutti ricordano fino alla fine presente ad ogni manifestazione contro le assurde politiche di tagli alla cultura. È d’obbligo dare onore alla memoria di uno che ci credeva, e oggi come oggi, quanti sono quelli che ci credono ancora, e in cosa soprattutto…?

Sì ma non è un obbligo tirare fuori nemmeno 24 ore dopo, tutti i temi dello scibile sociale e politico di questa società: il cattolicesimo opprimente e di facciata (nel quale però annaspiamo), il testamento biologico, il diritto dei poveri a morire come vogliono, i suicidi di massa nei penitenziari…
Magri soffriva di depressione, quel mal di vivere che un film del regista Alessandro di Robilant, tempo fa, descrisse molto bene, il film s’intitolava Per Sempre, protagonisti Giancarlo Giannini e Francesca Neri. Una storia bellissima, dove il protagonista, bello, ricco, stimato e di successo, si ammalava di mal d’amore, di un male deriso, spesso incompreso ma vero, esistente non solo in letteratura. Quello che viene definito “graffio dell’anima”, è uno strappo interiore, incurabile, che ti segna intimamente e ti consuma lentamente…

Si può spiegare una vita in mille modi, leggendoci le mille sfaccettature che l’hanno riempita, descrivendone le avventure, le parole, il coraggio, e la storia perché di storia si tratta. E Magri fu un assoluto protagonista di un pezzo importante della storia politica italiana, ma questo estremo “eretico” ultimo atto, di struggente poesia, come chi esce di scena di schiena e semplicemente se ne va, lasciamo che sia solo suo, intimo, personale, così come l’ha voluto, senza la mondanità evocata da tutti quelli che cercano uno scorcio di personale rivoluzione solo attingendo a quella degli altri.

Manuela Caserta