Pensiero del giorno

•‎In un momento della vita, al momento giusto, bisogna poter credere all'impossibile Christa T. - di Christa Wolf

venerdì 29 luglio 2011

George Steiner: «La cultura occidentale è come il Castello di Barbablù»


Il Castello di Barbablù è una drammatica favola del diciassettesimo secolo, nata dalla penna di Charles Perrault, che Bartòk agli inizi del 900, ispirandosi al testo reinterpretato dal poeta ungherese Bèla Balàzs, trasformò in un’opera lirica. Divenne nel tempo, lo schema e la metafora, dell’intera cultura di un secolo, che il critico letterario, filosofo e comparatista George Steiner, ha preso ad emblema di un suo libro, dal titolo appunto Nel Castello di Barbablù, riedito in Italia da Garzanti.
La favola racconta la storia dell’ultima moglie di Barbablù, che riceve dallo stesso le chiavi della sua casa, con il permesso di aprire tutte le porte tranne una. Quell’ultima porta segreta, che la principessa andrà ad aprire lo stesso, le svelerà l’orrore che vi era nascosto. Ovvero le teste mozzate di tutte le precedenti mogli di Barbablù. Questa drammatica scoperta si trasformerà, attraverso le penne dei poeti che la reinterpretarono, a emblema della cultura occidentale: una infinta galleria di porte aperte, che ove l’oscurantismo insito nelle culture etnocentriche e xenofobe, come è accaduto nel corso del ventesimo secolo, ne chiudesse una, potrebbe determinare la decadenza di un intero sistema culturale. George Steiner è stato critico del New Yorker per quasi un trentennio, fino a quando, l’istinto a dire sempre ciò che pensa non gli causò la rottura con il direttore Tina Brown che lo liquidò in “45 secondi” a suo dire. Nel suo Castello di Barbablù, George Steiner, parigino di origini ebraiche, illustra quella che egli stesso definisce, nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano Repubblica, una «civiltà intrappolata in una serie ininterrotta e violenta di crisi, passando da quella che era l'identità di una cultura dominante alla post o sub-cultura odierna».

Un’analisi approfondita del sistema culturale occidentale, che parte da lontano, ma nella quale, una delle cause di questa decadenza è da ravvisarsi secondo Steiner, anche e soprattutto nella frantumazione dell’apparato istituzionale scolastico, la sede di quell’istruzione primaria, che per lungo tempo ha mantenuto alti i livelli di competitività di alcuni paesi europei. La crisi gravissima che sta attraversando il sistema d’istruzione in Italia, Francia e Inghilterra, mette in seria discussione la formazione sociale e politica delle nuove generazioni, che finiscono a riempire in qualità di funzionari, gli apparati amministrativi e burocratici delle istituzioni, senza nutrire il minimo interesse verso la politica e dunque la partecipazione sociale. «Una demolizione progressiva del linguaggio travolto dall'immagine, soprattutto da quella telematica» la definisce Steiner, dovuta anche alla delegittimazione sociale ed economica di mestieri come quello d’ insegnante.

Un libro che parte dai secoli passati, analizzando i vuoti storici, e i “danni” se così si può dire, provocati dell’ottimismo illuministico. Per giungere fino alla Seconda guerra mondiale definita per l’Europa «una morte biologica, sociale ed economica molto estesa, dalla quale non ci siamo più ripresi». Tre le cause che lo scrittore e filosofo ravvisa alle origini dell’odio che portò all’Olocausto: l’invenzione del monoteismo, “Un Dio irrangiungibile e innominabile «Un Dio impossibile da tollerare, che strappa l'uomo alla libertà creativa del politeismo». Seconda causa scatenante, derivante forse da un’inguaribile complesso di colpa, proprio del Cristianesimo, si riassume nel dogma: «perdona il nemico, porgi l'altra guancia». Definita da Steiner «Una negazione dell'io non affrontabile, un imperativo destabilizzante per la più autentica natura umana». La terza e ultima causa risiede esattamente nell’opposta utopia «messianica del marxismo e del sogno socialista che pretende d'imporre all'uomo la rinuncia al profitto e all'egoismo: irrealizzabile. In astratto possiamo essere d'accordo con Mosè, Cristo e Marx, ma non potremo mai vivere seguendo i loro ideali».
Un’analisi laica, prorompente, che inchioda oltre un secolo di strutture culturali, attraversando tutte le porte del Castello di Barbablù, anche quelle proibite.

Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online il 28 luglio 2011

“Fine pena mai” sull’isola di Favonio

"Fine pena mai”, è il sottotitolo di tante storie di vita, dimenticate dietro le sbarre. Vite che si consumano nel tanfo di umidità di una cella, o peggio, finiscono vittime di una sorte peggiore. Il carcere è un’istituzione totale, che t’inghiotte e molto spesso, non restituisce nemmeno l’osso di quel che sei. A dispetto di ogni principio costituzionale, lì dentro, l’umanità si perde soltanto, non si riacquista. Favonio è un vento caldo, il vento da cui prende il nome l’isola di Favignana, “la farfalla sul mare”, come amò definirla il pittore Salvatore Fiume.

Favonio, è anche l’isola dell’ultimo carcere d’Italia, un piccolo penitenziario, dove le celle si trovano a dieci metri sotto il livello del mare. E quando l’aliscafo arriva sull’isola, le onde s’infrangono sulle pareti delle celle. Il profumo salmastro del mare, laggiù, diventa quasi apnea e si confonde con l’amara nostalgia della vita fuori dal carcere. Vento di tramontana di Carmelo Sardo, è la storia di un ragazzo di vent’anni, che trascorre la leva militare, facendo l’agente penitenziario, l’unico modo per guadagnarci qualcosa. Sono gli anni 80 e l’isola di Favignana non era ancora stata scoperta dal mondo degli happy hour. Questi lunghi nove mesi di naja, dove il tempo non passa mai e le notti di guardia sembrano interminabili, trascorrono annotando su un quaderno pensieri, riflessioni e storie su quel pezzo di realtà a tratti sconvolgente e a tratti rivelatrice, ma a molti sconosciuta. Ogni boss ha una storia da raccontare, che non è sempre e solo, la storia del potere e dell’avidità, che l’ha trascinato dentro quelle quattro mura.

A volte, sono semplici storie di uomini, di sentimenti, di famiglie spezzate e coscienze pentite. Ma il pentimento per un uomo d’onore, ai tempi, era una debolezza che rimaneva muta e nascosta in fondo a se stessi. Dentro questo piccolo penitenziario, da sprovveduto e ingenuo ventenne, il protagonista diventa uomo. Impara il codice silenzioso del rispetto, la gerarchia che vige anche all’interno di quel mondo chiuso, la regola che chi sgarra paga e paga anche con la vita. Comprende che c’è una linea sottile tra riconoscenza e complicità, che il confine è labile e passarci oltre può diventare quasi una scelta di vita irreversibile. Eppure, quella complicità, nata tra un vecchio scaltro boss e un ragazzino riservato e rispettoso, diventa un’amicizia, legata da un affetto quasi paterno tra i due. Un affetto, che rimane anche quando la leva finisce e l’aliscafo porta via il protagonista dal castello e dall’isola. Oltre i ruvidi racconti, della legge non scritta che governa la vita del carcere, c’è spazio per una storia d’amore che nasce ai margini di un tempo andato. Pulita, innocente e inattesa, come una rivelazione che la mareggiata ti restituisce.

Manuela Caserta

Pubblicato sul n. 12 de Il futurista settimanale

lunedì 25 luglio 2011

L’ultima “badgirl” della musica pop

Un numero, il 27, che a sentirlo ripetere in questi giorni, sembra la tragica Cabala dei “poeti maledetti” del nostro tempo. Qualcuno l’ha già definita la maledizione dei 27, la stessa età in cui morirono altri miti del panorama musicale internazionale come Kurt Cobain, Janis Joplin, Brian Jones, Jim Morrison, e Jimmi Hendrix. Un destino comune e una vita altrettanto simile, “sesso, droga, alcol e rockroll”.

Uno stile di vita che Jim Morrison, icona rock degli anni 60, rese la sintesi perfetta di quella controcultura di evasione che dominava l’epoca. Ma oltre la droga e il rockroll c’era qualcosa di più profondo e doloroso, che solo chi si ferma in superficie non vede. È stato così anche per Amy Winehouse, anche se ora la cronache gossip di tutto il mondo, ne celebrano il mito con la rassegnazione e il voyeurismo cannibale, di chi dietro quella morte, ci vede solo la fine scontata di una tossicodipendente alcolista. Non è così, la droga e l’alcol sono solo gli eccessi e le sabbie mobili in cui scivola chi non ce la fa a vivere. È questione di fragilità, le stesse che venivano catarticamente trasformate in pezzi soul di struggente intensità quando cantava.

“L’amore è una partita persa” cantava Amy in Love is a losing game, e di quella sconfitta probabilmente lei, giovane, fragile e dannata icona blues, identità che non le importava nemmeno di vestire, ne ha fatto la sorte in cui affogare. Anche sfidare la morte può essere una battaglia persa, chi la conosceva bene negli ultimi giorni, racconta di averla vista comprare una quantità indicibile di droghe, la ricerca disperata e forsennata di venire ingoiata dal vuoto, forse, solo una fuga disperata dalle sue ossessioni. Una fuga dalla vita che si è realizzata nella notte di venerdì, con un mix micidiale di alcool e qualche pasticca “sbagliata”, come si vocifera. Solo qualche giorno fa, rimbalzava sulle cronache rosa di tutto il mondo, la notizia che la pop-star era stata accusata di stalking, dall’ex marito Blake Fielder Civil, con il quale era stata sposata dal 2007 al 2009, un periodo coinciso con la sua inarrestabile ascesa nell’olimpo delle popstar del secolo.

Back to Black, l’album che l’ha consacrata al successo, fu pubblicato nel 2006 e il singolo Rehab, divenne tormentone pop e manifesto di una confessione trasformata in note. C’è forse una linea sottile superata la quale, la mente si perde in un mare di follia, dove emozioni e sentimenti diventano l’unica ragione di vita, il martirio di un’esistenza. La stessa follia che la spinse qualche tempo fa, durante un’intervista a incidersi con un pezzo di vetro, una frase sulla pancia “Love blacke”, un’altra estrema dichiarazione d’amore verso l’ex. Famiglia e management la imploravano di curarsi, ma lei si rifiutava, in un’intervista dichiarò: «Ho chiesto a mio padre se pensava che ne avessi bisogno. Ha detto "no, ma dovresti provarci". Quindi l'ho fatto, solo per 15 minuti. Ho detto "ciao" e ho spiegato che bevo perché sono innamorata e ho rovinato la mia relazione. Poi sono uscita».

Una bad girl, così come veniva definita, che non era altro che un’ultima dannata espressione di “Baudelairiana” memoria. «Non mi interessa di essere uno stupido modello per le ragazzine. Non mi interessa nulla e io per prima non ho una grande opinione di me. Ho semplicemente registrato un album che mi piace molto. Tutto qui».

Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online il 25 luglio 2011

domenica 24 luglio 2011

Viva tutto! Lorenzo, il mito pop si fa filosofo

Una fitta corrispondenza tra un cantante e un filosofo, può diventare un libro pieno di spunti culturali e creativi. Un fiume di parole “dal quale entrare e uscire” senza un inizio e una fine ma solo, facendo un tuffo dentro le riflessioni di due poeti della vita.
Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti e Franco Bolelli filosofo e scrittore, per un lungo periodo si sono scritti raccontandosi frammenti di vita, arte, cultura e suggestioni del mondo che vivevano. In un confronto che prende le forme di un fiume, a volte incessante, come i pensieri di Jovanotti uomo, padre e cantante, capace di inondarti con un flusso continuo di concetti. E dall’altro lato invece, c’è Bolelli, che accoglie le riflessioni di quell’eterno ragazzo, come un mare che placa le correnti. In questa Jam Session di parole, si parte da un dubbio e forse una paura, non esplicitamente ammessa: si può essere un’icona generazionale senza diventare vecchi? Le generazioni passano, si accavallano, e da Gimme five a Ora questo ragazzo di strada ne ha fatta tanta, “danzando sempre sulla frontiera”, che non è necessariamente una scelta da militanti, ma semplicemente da chi ha sempre sete di vita vera. Viva tutto! il libro pubblicato da Lorenzo «Jovanotti» e Franco Bolelli, è l’incontro lungo 490 pagine e nove mesi di gestazione, fra due mondi diversi. Dove c’è spazio per un confronto a 360 gradi che da Sanremo passa per i film di Robert Rodriguez, Valentino Rossi, fino a Gesù.

E questo mare di amicizia e complicità, che lo ascolta e lo stimola è nato molti anni prima, durante un festival organizzato a Milano da Franco Bolelli, dove Jovanotti è invitato e dove si ritrova in mezzo a gente come Tom Robbins, Giovanni Lindo Ferretti e Kevin Kelly.Questo flusso quasi quotidiano, di corrispondenza comincia a prender vita durante i mesi di preparazione dell’ultimo disco “Ora” di Jovanotti, che proprio in questi mesi è in tour. E la musica si sa, può catarticamente trasformare il dolore facendolo diventare poesia, superando gli abissi dai quali rischi di farti ingoiare quando perdi una persona cara. E uno che canta “la vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare” lo sa com’è che si trasforma il dolore. Leggendo Viva tutto! Si capisce che il titolo è ispirazione e chiave di un libro, dove non c’è alcuna pretesa pedagogica, da guru della musica o esperti del pensiero Nietzschiano. Non c’è trama, perché la trama è semplicemente il vissuto, che non sempre e non necessariamente segue l’ordine imposto dai cardini stilistici di redazione. Eppure il filo è quello che ti porta nel retrobottega della vita di due personaggi.

E allora si scopre, quel che ci si può immaginare, la vita di un padre, di un viaggiatore, di un compagno di vita, e quella di un filosofo controcorrente che predica il concetto taoista di filosofia evoluzionista e ascolta i Radiohead. Viva Tutto! è un inno alla vita, Bolelli scrive: «Il solo modo per salvare il mondo, non è salvarlo ma vivificarlo, energizzarlo, fargli brillare gli occhi e muovere i fianchi e battere il cuore e potenziare i muscoli e scatenare i sensi». Ti ci ritrovi tanto in quei sogni da bambino raccontati da Lorenzo, è una di quelle cose a cui si pensa spesso, soprattutto quando superi la fase in cui ancora, la percezione del tempo che passa, è come la parentesi aperta e chiusa di un discorso che non ti riguarda. Quando vai oltre quella fase, ti succede eccome di pensarci, perché i desideri non sempre fanno il paio con la vita che fai. «É questa la vita che sognavo da bambino» scrive Lorenzo in una delle sue mail a Franco, ma non si riferisce al “successo”, che è pur sempre il participio passato di “succedere”, o alle canzoni. Perché da bambino, uno non sogna mai di fare il cantante pop, se non in una vita drogata da reality, ma sogna piuttosto, magari, di diventare un supereroe, un’astronauta, o tutt’al più Sandokan. Ma si badi bene, stiamo parlando di un bambino che guardava la Tv intorno agli anni 70/80 per fortuna. In questo passo del libro, Lorenzo spiega che è riuscito a ritrovare in questa vita, un po’ di quell’immaginario fantastico e pieno di energia che Sandokan e l’Uomo Ragno gli regalavano da bambino. «Un giovane è come un corridore sulla linea di partenza. Ha bisogno di allenatori che gli dicano che il percorso sarà duro e avrà degli avversari tosti, ma che ce la farà, che comunque sarà una gara pazzesca e lui deve mettercela tutta e andrà tutto bene. Di puntare a vincere, di puntare a godersi la corsa, che prima di essere una gara è una corsa. Oggi c’è bisogno di questo in Italia, di qualcuno che infonda entusiasmo, che trovi il modo per farlo, un modo qualsiasi.

Se c’è una cosa che i grandi del passato possono fare per noi, non è metterci in guardia ma aiutarci a trovare la nostra strada, sostenerci nelle scelte. Anche la poesia può fare questo, anzi forse nulla più della poesia può fare questo». È così che fiume in piena e mare s’incontrano, quando Bolelli sostiene il pensiero di Jovanotti amplificandolo: «Se un pensatore, un filosofo, uno che ha talento, non mi aiuta a guardare il mondo dalla parte delle opportunità, se non mi offre soluzioni per vivere meglio, se come dici tu non dice la parola che accende il desiderio di progettare un presente migliore, allora quel pensatore, quel filosofo, quell’artista di talento, non è all’altezza del suo compito più elevato».Vale la pena tuffarsi in questo fiume di parole, perché c’è dentro l’energia di due visionari, c’è l’attitudine alla vita che ti rapisce in quelle pagine. Jovanotti sarà solo il nome d’arte che si è scelto, però sembra che l “omen”, come sostenevano i latini, segua proprio il nomen nel suo caso. Perché è un’artista di quelli che respirano con gli occhi, visioni, tendenze e culture di mondi diversi, e te le regalano in una canzone, in un disco che porti a casa come una valigia piena di viaggi. Uno di quelli che riempiono gli stadi, e poi ti capita di incontrarlo in una notte d’estate che canta al Joes’s Pub dell’East Village, a New York. Sì che si marcia sempre su una linea di frontiera nelle sue canzoni, da Safari a Tutto l’amore che posso però c’è sempre di mezzo l’amore immancabilmente.

Un disco, quest’ultimo, scritto durante la dolorosa scomparsa della madre, e nel testo de Le tasche piene di sassi, è struggente l’innocenza di un bambino con cui Lorenzo la ricorda. È un disco che viene fuori sul palco, giocando con gli archetipi tradizionali, quelli che vanno dal clown all’eroe mitologico. Un costume di scena da supereroe, quello che la mattina dovremmo vestire tutti, «se vedessimo il sole come un grande occhio di bue sarebbe un bell’esperimento». E già Lorenzo, «i sogni che si fanno da bambini non dobbiamo realizzarli alla lettera: è il metabolismo che conta, l’attitudine verso la vita. Non diventerai tecnicamente un supereroe, ma puoi essere il supereroe di te stesso. Si dev’essere orgogliosi della propria vita, si deve fare di tutto per diventare orgogliosi della propria vita.». In fondo “il più grande spettacolo dopo il Big Bang” è proprio questo.

Manuela Caserta
Pubblicato sul magazine settimanale Il futurista

martedì 19 luglio 2011

L'antimafia e l'antigiustizialismo di Leonardo Sciascia

“La mafia non esiste”, per fortuna solo qualche idiota, ancora, è capace di dirlo. Ma negli anni 60, quando la mafia, stava perdendo la fisionomia della coppola e della lupara, spostandosi dalla campagna alla città, infiltrandosi negli appalti e nelle istituzioni, di mafia si parlava ancora poco. Era un pensiero omesso, usato di malavoglia. Leonardo Sciascia fu tra i primi scrittori a trasformarlo in un tema letterario.

In quegli anni le inchieste sulla mafia non erano molte. Giuseppe Alongi un ex funzionario della pubblica sicurezza, in precedenza aveva scritto un saggio dal titolo “Maffia”, e prima di lui un ex prefetto di nome Cesare Mori, di cui Sciascia scriverà più in là, prendendolo a paradigma di un certo giustizialismo esasperato, negli anni del fascismo, venne inviato in Sicilia con l'ordine di reprimere ogni manifestazione mafiosa. Quale fu l'esito di tale missione, è facile intuirlo. Del “sistema” mafia, così come in realtà si strutturò, cominciarono a parlarne, denunciando il muro invisibile dell'omertà, dapprima solo pochi audaci cittadini, come il sindacalista Placido Rizzotto, ucciso dalla mafia nel 1948. Ne Il giorno della civetta di Sciascia, che venne pubblicato nel 1961, lo scrittore stigmatizzò romanzandolo quel “sentire mafioso”, diventato silenziosamente “sistema”.

L'ufficiale dei carabinieri, protagonista del suo romanzo giallo, è un'idealista che combatte al contempo due battaglie: una contro l'omertà, del delitto sul quale indaga, nessuno sembra aver visto o sentito nulla. E l'altra invece, è una sua battaglia personale, che consiste nel credere ancora, in una società fatta di valori, democratica e moderna, non immobilizzata da vecchi interessi precostituiti.
«Mendolìa...Ha detto cose da far rizzare i capelli: che la mafia esiste, che è una potente organizzazione, che controlla tutto: pecore, ortaggi, lavori pubblici e vasi greci...Questa dei vasi greci è impagabile: roba da cartolina del pubblico...Ma dico: perdio, un po’ di serietà...Voi credete alla mafia?». I personaggi del libro di Sciascia, potevano sembrare figuranti prestati alla letteratura dalla realtà. La mafia, al tempo, era ancora argomento da masticare amaro, sommessamente e con misura, tra un caffè e l'altro, seduti al bar della piazza del paese.
Sciascia, che fu pure uomo politico oltre che scrittore, mantenne sempre una sua autonomia di pensiero. La missione dello scrittore era per Sciascia, quella di stare sempre contro il potere, e lui controcorrente ci stava anche quando la sua voce steccava aspramente rispetto al coro. Come quando nel 1987, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera, ufficialmente dissentì da un certo giustizialismo esasperato che sconfinava nel fanatismo. «Se al simbolo della bilancia si sostituisce quello delle manette – come alcuni fanatici dell’antimafia in cuor loro desiderano – saremmo perduti irrimediabilmente». In quell'articolo Sciascia scrisse: «Può benissimo accadere anche in un sistema democratico che un sindaco cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra. Si può considerare come in una botte di ferro. Chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’ azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marcato come mafioso» Dichiarazione che al tempo, fu interpretata come un atto d'accusa verso l'Antimafia, fu accusato di aver rotto il fronte “dell'unitarietà della lotta alla mafia”.
Borsellino e Orlando, in quella incandescente fase storica, vennero individuati come le vittime inspiegabili di quelle parole. Una provocazione certo, una provocazione che sembrò azzardata, quasi delittuosa per la tensione che si respirava. Ma chi al tempo, seppe leggere fra le righe, aveva già intuito che le parole dello scrittore, non avevano certamente l'intenzione di colpire chi la mafia la combatteva davvero. Certamente non erano rivolte a Paolo Borsellino. Le polemiche continuarono per anni. Fino a quando, furono le stesse parole della vedova Borsellino, qualche anno dopo, a chiarire la questione raccontando dell'incontro avvenuto tra il giudice Borsellino e lo scrittore a Marsala, dove pranzarono insieme. «A Marsala, lì avvenne l’incontro fra Paolo e Sciascia, c’ero anch’io e c’era la signora Anna Maria. Paolo lo chiamava maestro, era felice. Gli disse: “Ho capito la mafia sui suoi libri”. Si misero a chiacchierare, è come se si conoscessero da sempre. Non è vero che in quella occasione ci fu una riconciliazione: non è vero perché fra i due non ci fu mai una frattura, nemmeno quando uscì quell’ articolo».
Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online il 19 luglio 2011


mercoledì 13 luglio 2011

Don Gallo, «Peccato sia solo un prete»

«Peccato che Don sia un prete, se fosse un politico, avremmo trovato il nostro leader» scriveva Loris Mazzetti, storico collaboratore di Enzo Biagi. E forse, su Don Gallo, non sono in pochi a pensarla alla stessa maniera. Don Andrea Gallo, sacerdote e fondatore della comunità di San Benedetto al Porto di Genova, compie 83 il 18 luglio.
Una lunga carriera di sacerdote sempre dalla parte degli emarginati, che gli è valsa l’etichetta di prete “comunista”, ma non è poi questo il compito e il dovere di un sacerdote votato alla carità umana? Che c’entra la politica con la filantropia che anima la vita di un prete? un prete con l’unica pecca forse, di essere poco incline verso gli apparati istituzionali ecclesiastici. Ma il suo ruolo guida all’interno della comunità di Genova lo ha svolto egregiamente, e questo gli viene riconosciuto prima di tutto dalla gente comune. Di Genova, conosce l’anima, quel pezzo di umanità che scorre tra le vie della periferia della città, cantata dal poeta De Andrè in Via del Campo, e divenuta la base della comunità di Don Gallo. Di sana e robusta costituzione (Aliberti Editore), è il suo ultimo libro dove per sua stessa definizione si dice “angelicamente anarchico”. «Ho scelto la non violenza, da sempre, come svolta epocale. E mi sento anarchico perché dove c’è un sopruso, qualunque sia, io sono subito dall’oppresso, da chi è colpito, da chi è scacciato, da chi è emarginato, e quindi immigrati, gay, lesbiche, i poveracci e i barboni, per loro io ci sono». Sulle colline del quartiere popolare del ponente genovese, al Cep, per il suo compleanno ci saranno Moni Ovadia, Gino Paoli, Marco Travaglio, Antonio Padellaro e tanti altri personaggi e amici di Don Gallo. Uno dei più strenui difensori dei diritti delle donne, e della Costituzione italiana. Un prete anticonformista senz’altro, un prete troppo addentro alle cose della vita per essere considerato solo un prete.

Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online il 13 luglio 2011

giovedì 7 luglio 2011

Edoardo Nesi: Storia della mia gente e storia di un destino mancato

Edoardo Nesi, scrittore, sceneggiatore, romanziere pratese, con la sua Storia della mia gente, è il favorito nella cinquina del prossimo, imminente, premio Strega. Mancano poche ore al verdetto, e l’ansia si consuma lentamente in una giornata afosa come questa a Roma. Nesi è il traduttore di molti celebri autori, come Chatwin, Stephen King, e anche della superba opera narrativa di David Foster Wallace, Infinite Gest.

Toscano, dallo stile elegante che scava dentro le storie partendo da una verità. È nato così anche il libro, che ha scritto insieme ad un’altra toscana verace come lui, Gianna Nannini. Quando Edoardo Nesi, nel suo libro Per sempre, citò la frase di una stupenda romanza della mitica rockettara senese, "Sei nell’anima e lì ti lascio per sempre", scoccò la scintilla di una brillante collaborazione fra i due. L’idea venne all’editor Elisabetta Sgarbi, e forse nell’epilogo di quel libro scritto a quattro mani (Gianna Nannini. Stati d’Anima edito Bompiani), c’era già nascosto il germe di Storia della mia gente.

In fondo tra una rockettara e uno scrittore di romanzi, in comune ci può essere più di quel che si pensa. Anche Nesi ad esempio, è sfuggito ad un destino quasi preconfezionato, proprio come Gianna. La sua famiglia, faceva parte di quella fiorente imprenditoria pratese che Nesi racconta nel suo ultimo libro, dal sapore quasi epico, con nostalgia. Ma il suo ultimo libro, è solo marginalmente autobiografico, in verità, dentro c’è la storia di un’intera generazione, o forse, sarebbe meglio dire, di un’intera classe imprenditoriale, quella dei produttori tessili, che costituivano una fiorente realtà italiana fino a poco tempo fa. C’è rabbia, in questo racconto, c’è la rabbia verso la dura legge della globalizzazione, quella che ha piegato e legato la piccola economia italiana, ai grandi numeri della produzione oltre confine. «Io lo so che la globalizzazione non si poteva interrompere e non si poteva fermare. Però sicuramente si poteva trattare» sostiene Nesi, che aggiunge «È come se un giorno l’aviazione di qualche paese a noi nemico, avesse deciso di bombardare chirurgicamente solo le nostre piccole imprese, questo è successo».

Storia della mia gente, è in fondo una spietata analisi economica, raccontata quasi in “versi”, è la storia della fatica della sua gente, che si è vista superare a sinistra dall’economia quasi a costo zero della Cina. Dentro c’è la storia di ogni piccolo imprenditore pratese. Quando le parole te le porti scritte addosso, come Nesi che si è tatuato sul braccio il nome di suo padre, si può sfuggire al destino di un lavoro che viene dalla tradizione familiare, e trasformare in parole e pagine bellissime, quello stesso lavoro. E se a volte, fosse il destino a raccontare te e non viceversa?

Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online giovedì 07 luglio 2011

domenica 3 luglio 2011

Monica Guerritore: «Oriana diceva, me ne frego dei guelfi e vaff... ai ghibellini»

«Cos'è che disturba, l'indipendenza di giudizio? Io me ne sto per i fatti miei. Ho cercato di mitigare la mia fierezza. La compagnia delle persone che si dichiarano intelligenti mi provoca stanchezza, un disgusto che somiglia al disprezzo totale». Era così Oriana Fallaci, schietta e sprezzante contro ogni conformismo. Libera, non c’è altra parola per definire un personaggio come lei.

Per lungo tempo, la politica ha cercato di includerla entro recinti di destra o di sinistra, senza mai riuscirci. Il mondo intellettuale diventa piccolo e distante dalle cose del mondo, intriso solo di velleità, quando si schiera rinunciando ad ogni forma di indipendenza e autenticità. Monica Guerritore, interpreterà Oriana Fallaci a teatro. Portando in scena, per la prima volta al Festival dei due Mondi di Spoleto, l’Oriana stanca e malata dell’ultimo e doloroso periodo della sua vita. Mi chiedete di parlare… è il titolo dato alla kermesse, nata da un’idea di Emilia Costantini, che si svolgerà in forma di un “immaginario confronto” con la grande giornalista e scrittrice. Una sorta di intervista, a cavallo fra il tempo presente e un tempo andato, dove le parole di alcuni grandi interpreti della realtà, come fu la Fallaci, risuonano ancora di spiazzante attualità.

La pièce viene coprodotta dalla fondazione Corriere della Sera, e nella prossima stagione teatrale, verrà portata sul palcoscenico del teatro Piccolo di Milano e del teatro Valle di Roma. Due realtà teatrali di grande spessore culturale, che rischiano di chiudere i battenti. Monica Guerritore, ritorna sul palcoscenico con un altro grande personaggio, dopo aver replicato con successo lo spettacolo dedicato a Giovanna D’Arco, della Fallaci dice: «Ciò che a mio avviso la rende teatrale, degna di essere portata a teatro, è il fatto che è un personaggio che si presta alle metafore. Ha una fisionomia tragica. Più che un’eroina classica, è un grande personaggio maschile, perché odiando la morte si nutre di morte. Lei che si è spesa per la libertà durante l’intera esistenza e combatte la morte da quando ha memoria di sé.... La morte è il cibo della vita - diceva - e all'inizio nasce come contrapposizione al desiderio di libertà, di diritti civili». Oriana Fallaci, poco prima di morire fu premiata con l’Annie Taylor Award, l’importante riconoscimento del Center For Study Of Popular Culture americano, che le assegnò il premio, dopo il coraggioso articolo della giornalista, pubblicato sul Corriere della Sera, all’indomani dall’attentato dell’11 settembre a New York. La Fallaci scrisse: «Sì, sono contro l' Islam, una religione che ogni minuto controlla l' esistenza degli esseri umani. L' Islam non è neanche una religione: è una tirannia, una dittatura, il solo credo che non abbia mai compiuto un’ opera di riforma, di autocritica. Ed ora vorrebbero imporla a noi». Dura, radicale e controcorrente, non per puro narcisismo, ma per convinzione nelle cose che aveva visto e descritto con i propri occhi e vissuto sulla sua pelle, durante tutta la sua vita da reporter. Come quando scrisse Un uomo, libro dedicato al suo grande amore Alekos Panagulis reso prigioniero e torturato dai Colonnelli greci nel 1968. «Il poeta ribelle, l’eroe solitario, è un individuo senza seguaci: non trascina le masse in piazza, non provoca le rivoluzioni. Però le prepara. Anche se non combina nulla di immediato e di pratico, anche se si esprime attraverso bravate o follie, anche se viene respinto e offeso, egli muove le acque dello stagno che tace, incrina le dighe del conformismo che frena, disturba il potere che opprime».

Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online il 03 lglio 2011

venerdì 1 luglio 2011

La Berlusconeide di Indro Montanelli

Del duello tra uno dei più grandi giornalisti e scrittori del nostro tempo, Indro Montanelli e il Caimano, si è detto tanto. A volte, anche, con poca cognizione di causa. Oggi, quello che fu il rapporto tra due simboli della questione di fondo che agita questo paese da quasi vent’anni, il conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi, è narrato in un volume che raccoglie i migliori articoli, corsivi ed editoriali che il grande Indro Montanelli scrisse, disquisendo di Berlusconi e del suo battesimo politico. Il titolo emblematico del libro, Ve lo avevo detto, dice tutto.

Quasi un monito, che dalla foto scelta per la copertina del libro, il giornalista lancia con il suo sguardo fermo e profondo di sempre sul tempo che viveva. Quel sodalizio che divenne un epico duello viene raccontato fin dalle sue origini. Berlusconi quando conobbe Montanelli, era solo un giovane e rampante imprenditore, che si offrì di salvare finanziariamente, il Giornale, il quotidiano in crisi, fondato dal giornalista. Quando l’imprenditore, in una fase politica di grande scombussolamento quale fu tangentopoli, decise di entrare in politica, chiese a Montanelli di mettersi al suo servizio. Da allora, il loro rapporto, divenne uno scontro senza precedenti. L’indipendenza dell’informazione e la libertà di stampa, per Indro Montanelli non avevano prezzo. Il libro traccia il filo di quel romanzo, che realisticamente oggi potrebbe definirsi una soap-opera infinita e a tratti tristemente tragicomica, definita la Berlusconeide.

Un episodio fra tanti, racconta l’ingannevolezza mendace del personaggio Berlusconi, «Silvio soffrì moltissimo per la morte del padre. Lo vidi piangere come una vite tagliata, e quella volta erano lacrime vere. Qualche giorno dopo, parlando di lui, mi disse: “D’ora in poi mio padre sei tu”. Mi chiedo a quanti altri lo aveva già detto o stava per dirlo. Ma sono arciconvinto che a tutti lo diceva con la stessa assoluta sincerità. Ecco perché mi fa tanto male vederlo sul video con quel sorriso fasullo, quasi un ghigno, che non ricorda neanche di lontano la bella risata fresca e squillante del Silvio di Arcore, non ancora Cavaliere. Quante bugie mi diceva anche allora. Ma come volergliene? Erano le sue chansons de geste, qualcosa di mezzo fra I tre moschettieri e Il barone di Münchausen, senza nessuna pretesa di credibilità. Ora le presenta come un programma di governo...». Un libro che occorrerebbe regalare a tutti i "berluscones" agguerriti, che ancora lo osannano. Un libro, da rileggere più volte. Perché il giornalismo italiano così come lo praticava Indro Montanelli, è cosa sempre più rara da trovare.

Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online 01 luglio 2011