Pensiero del giorno

•‎In un momento della vita, al momento giusto, bisogna poter credere all'impossibile Christa T. - di Christa Wolf

martedì 19 luglio 2011

L'antimafia e l'antigiustizialismo di Leonardo Sciascia

“La mafia non esiste”, per fortuna solo qualche idiota, ancora, è capace di dirlo. Ma negli anni 60, quando la mafia, stava perdendo la fisionomia della coppola e della lupara, spostandosi dalla campagna alla città, infiltrandosi negli appalti e nelle istituzioni, di mafia si parlava ancora poco. Era un pensiero omesso, usato di malavoglia. Leonardo Sciascia fu tra i primi scrittori a trasformarlo in un tema letterario.

In quegli anni le inchieste sulla mafia non erano molte. Giuseppe Alongi un ex funzionario della pubblica sicurezza, in precedenza aveva scritto un saggio dal titolo “Maffia”, e prima di lui un ex prefetto di nome Cesare Mori, di cui Sciascia scriverà più in là, prendendolo a paradigma di un certo giustizialismo esasperato, negli anni del fascismo, venne inviato in Sicilia con l'ordine di reprimere ogni manifestazione mafiosa. Quale fu l'esito di tale missione, è facile intuirlo. Del “sistema” mafia, così come in realtà si strutturò, cominciarono a parlarne, denunciando il muro invisibile dell'omertà, dapprima solo pochi audaci cittadini, come il sindacalista Placido Rizzotto, ucciso dalla mafia nel 1948. Ne Il giorno della civetta di Sciascia, che venne pubblicato nel 1961, lo scrittore stigmatizzò romanzandolo quel “sentire mafioso”, diventato silenziosamente “sistema”.

L'ufficiale dei carabinieri, protagonista del suo romanzo giallo, è un'idealista che combatte al contempo due battaglie: una contro l'omertà, del delitto sul quale indaga, nessuno sembra aver visto o sentito nulla. E l'altra invece, è una sua battaglia personale, che consiste nel credere ancora, in una società fatta di valori, democratica e moderna, non immobilizzata da vecchi interessi precostituiti.
«Mendolìa...Ha detto cose da far rizzare i capelli: che la mafia esiste, che è una potente organizzazione, che controlla tutto: pecore, ortaggi, lavori pubblici e vasi greci...Questa dei vasi greci è impagabile: roba da cartolina del pubblico...Ma dico: perdio, un po’ di serietà...Voi credete alla mafia?». I personaggi del libro di Sciascia, potevano sembrare figuranti prestati alla letteratura dalla realtà. La mafia, al tempo, era ancora argomento da masticare amaro, sommessamente e con misura, tra un caffè e l'altro, seduti al bar della piazza del paese.
Sciascia, che fu pure uomo politico oltre che scrittore, mantenne sempre una sua autonomia di pensiero. La missione dello scrittore era per Sciascia, quella di stare sempre contro il potere, e lui controcorrente ci stava anche quando la sua voce steccava aspramente rispetto al coro. Come quando nel 1987, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera, ufficialmente dissentì da un certo giustizialismo esasperato che sconfinava nel fanatismo. «Se al simbolo della bilancia si sostituisce quello delle manette – come alcuni fanatici dell’antimafia in cuor loro desiderano – saremmo perduti irrimediabilmente». In quell'articolo Sciascia scrisse: «Può benissimo accadere anche in un sistema democratico che un sindaco cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra. Si può considerare come in una botte di ferro. Chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’ azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marcato come mafioso» Dichiarazione che al tempo, fu interpretata come un atto d'accusa verso l'Antimafia, fu accusato di aver rotto il fronte “dell'unitarietà della lotta alla mafia”.
Borsellino e Orlando, in quella incandescente fase storica, vennero individuati come le vittime inspiegabili di quelle parole. Una provocazione certo, una provocazione che sembrò azzardata, quasi delittuosa per la tensione che si respirava. Ma chi al tempo, seppe leggere fra le righe, aveva già intuito che le parole dello scrittore, non avevano certamente l'intenzione di colpire chi la mafia la combatteva davvero. Certamente non erano rivolte a Paolo Borsellino. Le polemiche continuarono per anni. Fino a quando, furono le stesse parole della vedova Borsellino, qualche anno dopo, a chiarire la questione raccontando dell'incontro avvenuto tra il giudice Borsellino e lo scrittore a Marsala, dove pranzarono insieme. «A Marsala, lì avvenne l’incontro fra Paolo e Sciascia, c’ero anch’io e c’era la signora Anna Maria. Paolo lo chiamava maestro, era felice. Gli disse: “Ho capito la mafia sui suoi libri”. Si misero a chiacchierare, è come se si conoscessero da sempre. Non è vero che in quella occasione ci fu una riconciliazione: non è vero perché fra i due non ci fu mai una frattura, nemmeno quando uscì quell’ articolo».
Manuela Caserta

Pubblicato su Il futurista online il 19 luglio 2011


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