Pensiero del giorno

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mercoledì 14 settembre 2011

Terraferma di Emanuele Crialese: non è retorica non è poesia. È la ruvida bellezza dei fatti.

Si è vero che la Mostra internazionale del cinema di Venezia soffre di esterofilia. È quasi un dovere oramai dopo 68 edizioni, non smentirsi neppure una volta. E dunque a Terraferma di Emanuele Crialese è andato solo il Premio speciale della giura della Mostra del cinema più importante in Italia.
Va riconosciuta e sottolineata la bravura, su un ruolo ritagliato perfettamente sul soggetto, di Filippo Pucillo, giovane attore lampedusano che ancora bambino, prese parte ad un altro significativo film di Crialese, Respiro. Seconda opera cinematografica del regista, che ha esordito in terra straniera a New York, con il film Once we were strangers, primo film italiano ammesso al Sundance Film Festival di Robert Redford.

Tralasciando il curriculum vitae di Crialese, cosa mi ha conquistata intanto? La fotografia in primis, bellissima, intensa, realistica e tridimensionale. Il film si apre su un fondale blu, che già proietta l’immaginazione oltre, rapiscono i colori forti, naturali veri dell’isola (di Linosa) dove il film è stato girato. La sabbia nera, vulcanica, la terra arida, un’isola che è uno sputo in mezzo al mediterraneo. Eppure le immagini ti fanno sentire dietro quell’occhio fotografico, sei tu che rubi le immagini (fotografia di Fabio Cianchetti) e vai incontro ai personaggi, quasi ci parli muta, come una che ha da ascoltare una storia. I dialoghi sono prevalentemente in siculo isolano, forti, cantilenanti e mimati, c’è tutta la fisicità espressiva del sud. Filippo Pucillo nella parte dell’adolescente che impara a pescare con il nonno paterno, è intenso e puro, ha tutta la bellezza del ribelle selvaggio che conserva l’incanto. Quasi un piccolo e drammatico Gennarino Carunchio. I dialoghi passano in secondo piano, tutto il film ruota intorno alle loro facce, ai loro visi bruciati dal sole e solcati dal mare. Non tacciate il film di sentimentalismo, sarebbe un atto d’invidia gratuito. Le emozioni filtrano e si fermano come un nodo in gola sì, ma il film è una fotografia reale e cruda dei fatti accaduti. Tutto il resto, la poesia, la luce, i pescatori che si ribellano all’ingiustizia legale invocando il codice del mare è storia di umanità, di regole da marinai. Il mare non perdona se abbandoni un uomo in mare, e questo i pescatori lo sanno, lo rispettano, è una questione d’onore. La bellezza ruvida dell’isola è quasi imperdonabile, eppure è bellezza che tace sulla storia.

Fa riflettere questo film, fa riflettere sulla tragedia degli sbarchi, dei profughi sulle carrette del mare, della legge che vieta ai pescatori in mare, che avvistano una carretta di non avvicinarsi, di non caricare nessuno,di lasciare in mare fino all’arrivo della capitaneria i disperati. C’è una scena fortissima nel film, che esprime il senso e la portata del dramma. Filippo, il giovane adolescente, ruba un gozzo con la lampara di notte, e porta a fare un bagno al buio un’amica milanese in vacanza. I due si fermano in angolo di mare meraviglioso, accendono la lampara e il mare rivela la sua bellezza, viene voglia di tuffarsi in quel blu. Ma mentre lei fa il bagno, Filippo sente dei rumori, sposta la lampara verso il largo e il mare nero brulica di disperati che cercano voracemente di raggiungere a nuoto l’imbarcazione. Filippo si fa prendere dal panico, sa che non può farlo non può salvarli, ha rubato il gozzo, è solo con una ragazza, vigliaccamente cerca di fuggire, allontana i disperati che si attaccano al gozzo quasi capovolgendolo. Lui si agita li bastona, la scena è cruda, forte, c’è disperazione, sensi di colpa, e tutta la vigliaccheria impotente di un ragazzino che per non commettere un reato si ritrova il giorno dopo, con una coscienza da affogare per timore di aver commesso un delitto, tradendo la legge del mare.

Donatella Finocchiaro è brava come sempre, interpreta la voglia di fuggire con la malinconia negli occhi. Il nonno Ernesto (Mimmo Cuticchio) è la quercia cresciuta su quello scoglio, non ha radici sulla terra ferma e non ne vuole. Beppe Fiorello, è il cinico piccolo imprenditore locale, fa divertire i turisti, e interpreta il nuovo che avanza, la generazione che scavalca la tradizione, l’omologazione in pieno stile tammarreide.
È uno di quei film che andrebbe proiettato nelle scuole, che trova la sua bellezza nel ruvida verità, non ci sono cifre stilistiche da decantare. Semplicemente ci sono cose che neppure un Tg ha il coraggio di spiegarti come fa il cinema.
Ps: soffermatevi a leggere i titoli di coda, perché un film è fatto anche dell’opera dei tanti piccoli artigiani e artisti da backstage. Ma soprattutto la colonna sonora finale vi cullerà nel farlo.

Manuela Caserta

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